mercoledì 20 luglio 2016

Star Tre


Caliente come un traghetto Tirrenia con l'aria condizionata fuori uso, l'astronave Enterprise continua il suo viaggio là dove nessuno è mai giunto prima. Piccolì avvicendamenti nell'equipaggio: produzione sino-americana, con i soldini di Alibaba a finanziare la terza missione del nuovo/vecchio equipaggio; regia sino-australiana, con il Justin Lin di Fast & Furious sulla poltroncina che fu di JJ Abrams; cast più ricco e melting pot che mai, con una Sofia Boutella e un Idris Elba in più. Disgrazia vuole che il terzo Star Trek della nuova/vecchia serie sia una fotocopia del secondo e del primo, con un cattivo scaricato nel buco del gnao della galassia in tempi remoti e perciò deciso a prendersi la sua vendetta contro l'odiata Federazione. Messi in panchina Kurtzman e Orci, a questo giro il peso della sceneggiatura poggia sulle spalle del carneade Doug Jung e soprattutto di Simon Pegg (il nuovo/vecchio Scotty, ma anche l'autore di L'Alba dei morti dementi e Hot Fuzz), il che fa di Star Trek Beyond una specie di Action comedy in ambientazione spaziale. Ma dopo un inizio brioso il giusto, subentra un fastidioso senso di dejà vu: e si comincia a pensare con nostalgia agli episodi più estremi della vecchia/vecchia serie, con i nostri costretti ad atterrare su pianeti abitati solamente da single mozzafiato sormontate da cofane alla Amy Winehouse o indietro nel tempo nell'America della Caccia alle streghe. Roba buona per il prossimo episodio, secondo le voci di corridoio. Questo si può vedere, ci mancherebbe. Ma da qui a definirlo un must, ce ne passa.

Ediscion straordinaria



Su Rottentomatoes, aggregatore di recensioni on line, è arrivato dietro a Batman Forever di Joel Schumacher. Zack Snyder, che l'ha diretto, con questo film si è guadagnato il soprannome di Zack the Hack, che da noi suonerebbe un po' come Zack il Bidone. Gli incassi, alla fine, si sono rivelati decenti ma non eccezionali, almeno per una pellicola che vedeva di fronte per la prima volta sul grande schermo due icone dell'immaginario come Batman e Superman.
Viste le premesse, la domanda sorge spontanea: perché cacciare quasi venti euro per la Ultimate Edition di Batman v Superman, soprattutto se il consiglio arriva da chi ha apprezzato la prima versione del film, quella arrivata nelle sale e derisa per settimane da praticamente tutti i trendsetter?
Domanda lecita. Almeno quanto il giudizio a posteriori su un film che è stato massacrato innanzitutto da chi avrebbe dovuto promuoverlo: perché i trenta minuti di pellicola in più dell'edizione definitiva non cancellano i difetti del film - la gravitas, lo zero assoluto di humour, le scorciatoie narrative, le irraggiungibili ambizioni "adulte" - ma colmano le falle più macroscopiche della sceneggiatura, restituendo al film un senso tutto diverso, un Luthor più credibile che puerile, un senso sorprendentemente affine ai Batman di Chris Nolan, che nella versione uncut del blockbuster più discusso di sempre sembra aleggiare ancora come un fantasma nonostante la reductio a produttore esecutivo. 
Basterà? Per chi non ha apprezzato la magniloquenza di BvS, il suo essere costantemente e totalmente fuori scala, la sua folle presunzione da più grande spettacolo del mondo, difficilmente. La speranza è convertire gli agnostici, quelli che fin qui hanno gradito l'impaginazione impeccabile del film, le strizzate d'occhio ai vecchi "sandaloni" di Hollywood e ai dipinti rinascimentali, il Pipistrello più action di sempre. O semplicemente l'infantile gratificazione di vedere per la prima volta fianco a fianco sullo schermo il Cavaliere Oscuro e l'Uomo d'acciaio, per tacere di una certa amazzone. Se non son soddisfazioni queste, proprio non so.

lunedì 11 luglio 2016

(Segue)



La maledizione funziona così: se trombi sei morto. Non immediatamente, però, e non senza un carico di angoscia mica male, perché il ciclo collodiano fra marachella e castigo è cortocircuitato in un ralenti che è allo stesso tempo un'eco del peccato da espiare: e allora, il mostro di It Follows diventa l'attesa del castigo, un incubo cangiante che cambia continuamente aspetto seguendo però il geniale fil rouge della bedtime story. Quindi, una vecchia signora in sottoveste, un giovane alto e secco in mutande e maglietta, una signora matura in vestaglia da notte, un ragazzino in pigiama. David Robert Mitchell fa paura utilizzando i campi lunghi, roba che non si vedeva più dai primi zombie di Romero, e sfodera un horror puro, esangue ma efficacissimo, tutto giocato sulla metafora dello sguardo che vaga sull'orizzonte e sull'idea di un nemico ottuso, ossessivo, incomprensibile e inarrestabile. Un film scolastico e furbo nei rimandi visivi al Carpenter di Halloween o al Crichton di Il mondo dei robot, ma allo stesso tempo intimo, personale e terribilmente vischioso, il genere di pellicola che ti si attacca addosso e ti costringe a volerne ancora. Un buon successo in patria, dove è uscito un anno fa. Meno da noi, dove si sceglie di mandarlo al massacro a luglio e con scarsa promozione. Da vedere subito, prima che evapori al caldo dell'estate. Perché la cosa terrificante davvero sarebbe perderlo.