Quando la Banda passò |
Ma come nel caso dei migliori film Pixar, l'ambientazione è puro orpello, il fastoso espediente visivo per raccontare altro: una storia universale che parla della precarietà dell'esistenza e del ricordo, della necessità di mantenere il legame con i retaggi ancestrali, dell'importanza del giocarsi in una relazione. Il tutto, a partire da un folclore sacro e profano distillato in un character design che torna al divertissement macabro di vecchi "corti" Disney come La danza degli scheletri o videogame come il leggendario Grim Fandango di LucasArts, e a tutta la paccottiglia per turisti disponibile sul mercato: le calacas del 2 novembre, gli Alebrijes, El Santo, l'immancabile Frida, il Son. Un nuovo viaggio all inclusive fra le emozioni, però più pulito e "di panza" di quello visto in Inside Out, e più abile a far vibrare le corde del cuore, con due o tre momenti da sciogliere il più incallito Hijo de puta, uno script che tiene alla perfezione per tutti i 106 minuti della pellicola e un comparto visivo e musicale tutto oh e ahhh.
Manca la sequenza killer, quella da consegnare agli annali del cinema per il suo carico da undici di inventiva, slapstick o vattelapesca, quella tipo la scena delle porte di Monsters & Co. o il piano sequenza sul portavivande di Ratatouille. Ma la regia di Lee Unkrich e del sodale e sceneggiatore Adrian Molina è un tripudio di recitazione che regala ai pupazzi digitali al centro della rivista un'umanità degna dei ritratti di Steve McCurry, e alle sequenze più complesse e articolate una levità di tocco degna di Chaplin: valga, su tutti, l'esecuzione de La Llorona durante il terzo atto del film.
E imbroccare il colore e la densità del Tequila reposado in un film animato, diciamolo, non è da tutti.
Chissà quanto se ne sono ciucciato per imbroccarlo, questi gringos.
Nessun commento:
Posta un commento