venerdì 17 maggio 2013

Getting a little Gatsby


Era inevitabile, prima o poi, che Baz Luhrmann riuscisse a mettere le mani addosso a Francis Scott Fitzgerald. Tutte quelle entrature nella New York bene degli Anni 20, e poi feste indiavolate a base di sesso droga e ragtime, le storie di corna e di malaffare, i personaggioni più grandi della vita... Tanta roba - e tutta irresistibile - per l'ultimo grande autore di melò del cinema anglosassone.
Peccato che Il Grande Gatsby, nel senso del romanzo, col melò non c'entri granché.
Sì, la liaison tormentata del protagonista con la svampita Daisy c'è anche nel libro.
Ma lì è solo McGuffin, puro pretesto per il viaggio nel vuoto cosmico delle bella gioventù di Long Island, che nella realtà lo scrittore e sua moglie Zelda avevano visto da vicino e con cui avevano condiviso noie, languori, tic sbronze ed eccessi. I soldi e l'apparenza come faro e come dannazione.
E il Gatsby letterario è snello, asciutto, amarissimo, esistenzialmente tragico nell'accezione più nobile del termine, come un Flaubert o un Conrad fuori tempo massimo. Tutto il contrario del blockbuster firmato dall'australiano, che sostanzialmente ne fa un remake meno outrageous e per questo molto più normale di Moulin Rouge. Molta maniera nell'uso fuori contesto della musica tunza, nei ralenti insistiti esasperati, nell'uso dello schermo come bloc notes digitale a uso e consumo di Nick Carraway, qui promosso ad alter-ego di Francis Scott stesso.
Ma è proprio il fantasma di Fizgerald a salvare in corner la soap di lusso della Warner: sua la citazione che chiude il film, sue le stille di veleno che imballano lo stomaco, sua la malinconia che scava dentro e scatena la voglia di rileggere l'unico e solo Gatsby the Great ancora e ancora e ancora.
3D totalmente inutile, sfruttato solo per aumentare la profondità di campo, buio e a volte davvero troppo kitsch: meglio senza.

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