Vide 'O Mare Quant'è bello |
martedì 28 aprile 2015
Vedi Napoli e poi godi
mercoledì 22 aprile 2015
Avengers - Age of Ultron: piatto ricco mi ci ficco
All you can eat |
Menù a buffet, ma da strafogarsi, quello di "Age of Ultron", secondo film ispirato agli Avengers. D'altro canto, il mandato dei Marvel Studios era chiarissimo: bissare i successi stellari del film ispirato al super-gruppo messo insieme da Lee e Kirby nel 1963 alzando ulteriormente un'asticella già bella alta di suo.
E quindi: un cast di maschere ulteriormente allargato ai nuovi entrati Quicksilver e Scarlet Witch, senza contare l'androide esistenzialista Visione; una esperienza filmica più ricca, tonitruante e immersiva; una minaccia globale più folta, pervasiva e infestante; un comparto visivo più vertiginoso sul piano delle magie live-action e degli effetti digitali.
A questo giro, l'effetto spiazzamento sta tutto nella scelta di lasciare in secondo piano i ragazzi irresistibili Iron Man, Capitan America e Thor e i momenti comedy per concentrare tutto il nocciolo emotivo del film sullo strepitoso Ultron di James Spader e sul melo super-eroico.
Spazio quindi agli affetti gli why e i because di/fra gli outsiders del gruppo, dalla Vedova Nera, a Hulk, fino all'insospettabile family man Clint Barton e ai gemelli Wanda e Pietro, a dar corpo e sostanza a una trama divisa in tre atti e stavolta abbastanza avara di scampoli frivoli, soprattutto nel mezzo del cammin. A ben guardare, il meglio di questo secondo episodio sta proprio qui: nel cambio di registro, nell'ambizione retorica e nella capacità di Joss Whedon di mettere in scena con consapevolezza tutte le action figures a sua disposizione. Tutte cose di cui la Distinta Concorrenza farebbe meglio a tener conto, visti i programmi in essere.
Il resto è pura bulimia sensoriale realizzata seguendo traiettorie e angolazioni impossibili che apparentano gli eroi post-moderni dei fumetti a quelli manichei e senza tempo del cinema fantasy di Peter Jackson: corazze e frecce e saette e coreografie impossibili che riempiono occhi e stomaco dal primo all'ultimo di questi centoquaranta minuti di spettacolo sottolineando il legame a doppio filo fra gli eroi transmediali, i loro omologhi western e quelli arcaici del mito.
Il difetto, se proprio proprio, sta nell'eccesso: per chi è assuefatto al cinema cavalleresco modellato sulle tavole dei comic books, panza piena e satolla già dopo il primo quarto d'ora di acrobazie circensi. Che nel corso della vicenda vanno a crescere fin sotto l'Happy End, apertissimo come nella migliore tradizione.
Tanta roba, invece, per il target ragazzino di riferimento che dal 22 aprile affollerà multiplex, negozi di giocattoli, fast food eccetera. Unico, vero appunto il 3D, inutile patina dark su un film già piuttosto scuretto in partenza. Ma l'IMAX Experience, per questo cinema più grande della vita, ci sta tutta.
mercoledì 15 aprile 2015
Herb Triste
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Se ne vanno sempre i migliori
martedì 14 aprile 2015
Castelli in aria
Il Buon Vecchio Zio Alfy non sembra prendere mai niente troppo sul serio.
Il che tradisce la serietà con cui affronta il suo mestiere, il suo approccio alla scrittura, la sua sottile malinconia. Una malinconia che forse dipende dai 50 anni di fumetti, o forse chissà.
Come tutti gli autori di fumetti che conosco, il Buon Vecchio Zio Alfy vive in una bolla spazio temporale a sé, lontanissima dalla nostra realtà, ma regolata da leggi precise.
La prima è non prendere mai niente troppo sul serio.
A parte questo, ci sono: rimandare gli impegni sgradevoli sine die con scuse degne di un feuilleton ottocentesco, sapere tutto di fumetti dei quali il novantanove per cento del mondo ignora l'esistenza, inventarsi ogni tanto un format nuovo e la nobile arte di scoraggiare gli aspiranti sceneggiatori di Martin Mystère dallo scrivere le storie del suddetto.
Che tu arrivi lì pensando a un'idea pim pum pam su Martin Mystère e lui ti dice stai manzo, che Martin Mystère è un Piero Angela biondo un po' più più logorroico.
Senza mai prendersi troppo seriamente, chiaro.
Io al Buon Vecchio Zio Alfy lo stimo un casino.
Un po' perchê scriveva i fumetti che leggevo da ragazzino, tipo gli Aristocratici e l'Omino Bufo e Mister No.
Un po' perché mi ha lasciato scrivere Martin Mystère, che a pensarci ogni tanto a pensarci mi dò dei pizzicotti per vedere se è vero e accidenti, sembra proprio così.
È un po' ci voglio bene perché anche se non fosse ancora chiaro non si prende mai troppo sul serio.
Ecco, invece in questi giorni il buon vecchio zio Alfy ha organizzato una roba da prendere molto sul serio. Tre serate dove si parlerà di cosa sono, come si fanno e come si spacciano i fumetti. Con un sacco di special guest e di sorprese.
Secondo me, vale la pena passarci.
Secondo me, vale la pena passarci.
lunedì 13 aprile 2015
Vitamina!
Venite venite parvulos |
È una buona notizia a metà l'uscita di Vitamina.
Da un lato, infatti, ogni nuovo tentativo di rivista per bambini ini ini andrebbe accolto con i proverbiali 15 minuti di applausi registrati. Dall'altro, si tratta di una localizzazione - quella della rivista francese J'aime lire, 2 milioni e passa di lettori in terra d'oltralpe.
Ma nell'attesa che anche nel nostro bistrattato Paese mille fiori fioriscano (basterebbero anche un paio di carciofi, eh, niente de che) tocca fare il conto dei pischelli di casa a includere figli nipoti e amici di amici, e fulminare in edicola a cercare questo pocket. Costa poco, due duri e novanta, ma promette piuttosto bene. Non è una spesa: è una piccola scommessa sul futuro.
mercoledì 8 aprile 2015
La Storia siamo lui
Vent'anni passati ad aspettare la fine di una leggenda in un mondo che nel frattempo ha cominciato a danzare su ritmi diversi, più prevedibili, più avari di grazia e autentica leggerezza.
Non è più tempo di farfalle nello stomaco. E infatti, i sogni hanno ceduto il passo al pragmatismo primordiale dei liberisti puri. Non è nemmeno più tempo per gli eroi problematici. Quelli dei decenni passati, come Corto Maltese, Lo Sconosciuto o Mister No, sono usciti di scena da un pezzo e le loro avventure meravigliose e potenti oggi incombono sulla scena come eredità scomode, manieri preziosissimi e sconfinati difficili da aprire a un pubblico barbarico, impossibili da adattare a contesti più micragnosi e onerosissimi da gestire. In un altro tempo, in un'altra realtà, tutti potevamo permetterceli. Ma oggi, sono diventati un lusso. Un elefante nel tinello. Un ideale adolescenziale da superare. Per arrivare con Emily Dickinson fin dove arriva il mattino.
Berardi e Milazzo hanno rimandato il viaggio finché hanno potuto, forse consapevoli della difficoltà improba di regalare a questo eroe così normale e così straordinario un'uscita di scena degna della sua storia editoriale. Serviva un coup de theatre capace di risarcire i tanti orfani di Ken degli anni passati rimpiangendo gioielli come La Ballata di Pat O' Shane, Lily e il cacciatore o Sciopero. Serviva un ritorno all'essenziale della serie, quel misto di ineluttabilità, antispettacolarità e furore elegiaco cui gli autori genovesi ci avevano abituato. E infatti, andiamo a parare proprio lì.
Chi ha orecchie per intendere, l'avrà già capito: alla fine di questa cavalcata non ci sarà nessuna ricompensa, nessuno scioglimento dell'intreccio, nessun finale compiuto. Solo l'unico intrinsecamente sensato rispetto all'irripetibile parabola narrativa di Lungo Fucile. La strada verso il sole che sorge è stretta, ripida e aspra, senza ombre di cameratismo o comic relief. Ogni pagina di questo capitolo finale anticipa una catarsi perfettamente imperfetta e totalmente rispettosa dello spirito della serie, un finale non finito che nel suo rigore risulta quasi insopportabile. Non c'è mai stato spazio per le anime belle, nel West dei vecchi dagherrotipi e delle storie di frontiera che Ken replicava con trasporto sulla carta. E a maggior ragione, non può esserci nemmeno in questa cinquantesima uscita.
Come accennato più su, non è più tempo di eroi problematici. Con o senza un certo scout, sembrano dirci quei meravigliosi figli di buona donna di Berardi e Milazzo, i fumetti continueranno a uscire, il mondo continuerà a girare, il sole continuerà ad alternarsi con la luna, le persone continueranno a vivere e morire. La Storia, insomma, continuerà a fare il proprio corso, con la sua logica mastica e sputa. Ecco, più che alla Dickinson, arrivati all'ultima pagina dell'avventura il pensiero corre al finale tremendamente umano buio e vertiginoso del bellissimo romanzo omonimo di Elsa Morante: "Si dice che in certi stati cruciali davanti agli uomini ripassino con velocità incredibile tutte le scene della loro vita. Ora nella mente stolida e malcresciuta di quella donnetta, mentre correva a precipizio per il suo piccolo alloggio, ruotarono anche le scene della storia umana (La Storia) che essa percepì come le spire di un assassinio interminabile. (...) Tutta la Storia e le nazioni della Terra s'erano concordate a questo fine". So long, Ken. Ci mancherai un sacco.
giovedì 2 aprile 2015
Avanti, c'è posto
Trasporto pubblico al estilo mexicano: ne avevamo già parlato qui.
Vale la pena di tornarci sopra per segnalare che Internacional, la automotive company preferita dai conducenti di peseros, ha messo on line a gratis un magnifico volume fotografico sul mondo dei microbus. Belle foto, bei mezzi, belle facce, bei viaggi da fare sfogliando il proprio tablet. Non proprio come essere là, ma quasi. Il libro si chiama Subale, Hay Lugares. In carrozza, qui.
mercoledì 1 aprile 2015
Chappie ch'el gh'è
Il vero mistero dietro Chappie sta
nella scelta di Sony di distribuire nell'arco di poco più di un anno una specie di Robocop.
Guarda caso, quello di Blokamp è
il film più piacevole dei due. Ma oltre al flop platinato del
remake dello sbirro cibernetico, qui c'è da scontare l'ulteriore aggravio
delle stroncature piuttosto ingenerose già patite negli Usa. Nonché di un titolo magari
più badass di quello originale al gusto cibo per cani, ma
terribilmente melò.
Al sodo, quella di Chappie e né
piú né meno la fiaba collodiana di un burattino di titanio che sogna di
diventare un bambino vero e che nel corso di questo proletario e
futuribile bildungsroman deve sobbarcarsi un master in crudeltâ
umana con i controfiocchi. Con tutti gli sfracelli del caso. Presente il classicissimo e sgangherato Pinocchio Super-Robot di Bunker & Chies? Eccaallà.
I limiti del film stanno tutti
nella scrittura, che rispetto al precedente-monstre di District 9 fatica
a far convivere l'anima lieve e le aspirazioni gravi di Chappie, pardon Humandroid. La sintesi è un giocattolone dichiaratamente disomogeneo nel mix di generi
come il thriller, la commedia e il sentimento, un tantino teen nelle
scorciatoie e nel character design, ma impattantissimo sul piano visivo. Un
b-movie piuttosto accattivante, che con un po' di cinismo à la Verhoeven
sarebbe potuto diventare un cult e oggi, purtroppo, rischia più per inflazione fantasy-robotica che per demeriti intrinseci. Certo, poi da
Blokamp è lecito aspettarsi ben altro: ma chissà che il ritorno al genere alieni
bavosi non gli giovi.
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