mercoledì 30 dicembre 2015

mercoledì 16 dicembre 2015

Il potere della Forza

Che la gnagna sia con te
Cose che funzionano, cose che un po' boh. Alla fine, quelle che funzionano fanno pendere la bilancia dalla parte giusta, ma senza troppa euforia: perché stringi stringi, questo nuovo capitolo di Star Wars altro non è che un remake aggiornato al format Imax del leggendario primo (quarto?) episodio della serie, un curioso oggetto cinematografico a metà fra l'affettuoso omaggio ai tempi che furono e il diabolico prodotto di marketing realizzato ad hoc per quelli che si erano persi il meglio (leggi: il merchandising) per motivi squisitamente anagrafici. E allora: un bello spettacolone vertiginoso e infarcito di colpi di scena, diversi personaggi riusciti, archetipici il giusto e perfettamente sintonici al grande passato di Star Wars. Splendide creature organiche e meccaniche e digitali perfettamente integrate in scenari dal vivo degni di un Lean o di una Riefenstahl. Una trama molto basica e molto universale, lontana mille miglia dall'inutile, incomprensibile geopolitica intergalattica della seconda trilogia e intessuta di rivelazioni e agnizioni telefonate ma efficaci. E soprattutto, niente Jar-Jar Binks.
Piacerà? Piacerà, e di brutto, soprattutto a chi non ha vissuto i bei tempi dell'epopea originale. Chi invece c'era, si porterà a casa un paio di spunti narrativi che promettono discretamente, almeno un paio di guerrieri stellari forse troppo monodimensionali ma comunque degni di maneggiare una spada laser, un robottino strappabaci che di più proprio non si poteva, qualche facile scorciatoia a livello di script. Ma anche un retropensiero paradossale: la consapevolezza che a livello di ricerca visiva, production design e sperimentazione i tre pur sgangheratissimi Star Wars prodotti da Lucas nel nuovo millennio nel bene e nel male osavano molto più di questo perfetto ma un po' algido e calcolatissimo "The Force Awakens". Incassi stellari in arrivo: Ma per un parere conclusivo, meglio aspettare i prossimi episodi, e nel frattempo godersi i pupazzielli.

giovedì 3 dicembre 2015

Trappola in alto mare




Sembra scritto da un maestro d'ascia, At the heart of the Sea - Le origini di Moby Dick. Ma pur zavorrato dalla stessa pedanteria didascalica di un vecchio sceneggiato Rai, il nuovo film di Ron Howard arriva in porto. Merito del regista, più discontinuo del solito ma comunque abile a ribaltare in faccia allo spettatore le suggestioni action dello script con un racconto che liquida ogni baldanza nella prima mezz'ora per poi virare verso il dramma survivalista e proletario. E merito dei membri del cast, per dirla con Zoolander troppo figosi e ovviamente condannati alla bromance, ma comunque capaci di incarnare il succo di un lungo viaggio per mare - il freddo, la fame, la solitudine, la disperazione, l'abiezione, la follia. Il limite autentico di questa nuova storia di sopravvivenza di Howard semmai sta nel suo essere pura maniera, nella confezione regalo da grande racconto universale però costretta a infrangersi contro la corrente avversa di un cinema che ormai ha saputo trascendere le trappole del genere, e in pochi decenni ci ha regalato i fumetti abissali di Gore Verbinsky, gli oceani inconoscibili di Peter Weir, i mari nerissimi di Spielberg. E che nella sua algida prevedibilità da spettacolone digitale a vocazione global, paradossalmente rinuncia subito a ogni pretesa di resilienza, per consegnarsi all'effimero. Finché stai dentro il film, intendiamoci, tutto bene. Ma appena usciti dalla sala, il senso della storia evapora, come il miraggio della Balena Bianca, o le vanterie di un vecchio pescatore in una bettola di Nantucket. Visti da qui, Apollo 13 e Rush sembrano lontanissimi. Ci sta.

sabato 14 novembre 2015

martedì 10 novembre 2015

Per focaccia



Film decisamente per cinni questo Pan di Joe Wright. Non quelli ini ini ini, che di fronte alle provocazioni edipiche disseminate qua e là nella pellicola potrebbero portarsi a casa qualche suggestione di troppo. Però, via, dai dieci anni in su, va bene. Negli USA, dove il film si è scontrato con The Martian-il sopravvissuto uscendone con le ossa rotte, il saldo è ampiamente negativo, a dimostrare che la Warner sembra avere un talento speciale nell'abortire franchise multimilionarie al di là di quelle legate a property a prova di bomba come Batman o Harry Potter. Qui nella vecchia Europa, la speranza è che il nuovo Peter Pan porti a casa qualche soldino in più, complici il cotè British del romanzo originale e il mesetto buono che ci separa dal nuovo Star Wars, che dopo non è n'è più per nessuno. Detto questo, un'occhiatina questo giocattolo da trecento milioni di dollari la merita. Non solo per la sfacciataggine nell'accostare materiali pop pescati da James Barrie, ma anche dal James Cameron di Avatar, dal Peter Jackson di King Kong e addirittura dall'ultimo Mad Max, che a vedere certe scene uno pensa che nelle pause sul set Wright corresse a vedersi le dailies di Immortan Joe e soci; ma anche e soprattutto per una magniloquenza visiva degna di un trip del Calvin di Watterson, con più effetti ottici e meccanici di quanto un essere umano normodotato possa sopportare è un 3D funzionale alla vertigine narrativa di un copione bucherellato, ma non peggio di quelli tanto cinema ad altezza ragazzini. Vero è che man mano che si procede verso il finale lo spettacolo pirotecnico messo insieme dal regista inglese si fa via via sempre più manierato e melenso; vero è che il ragazzino protagonista, Levi Miller, non è un mostro di simpatia e le performance di qualche membro del cast sono un tantino legnose, come impone la regola dei set fantastici; ma vedere un duello aereo fra uno stormo di spitfire è un galeone a vele spiegate, o sentire Hugh Jackman che canta Smells Like Teen Spirit dei Nirvana sospeso a cento metri da un coro dickensiano di minatori in braghe corte, fa comunque allegria. Basta per dire che trattasi di un film imperdibile? Diciamo di no. Ma come incentivo, può servire.

giovedì 5 novembre 2015

Videoburrito criminale





La Tracalosa de Monterrey dimostra che il precariato fa brutto veramente.

lunedì 2 novembre 2015

mercoledì 28 ottobre 2015

Topolinismi

The End

Nelle bibbie per gli sceneggiatori, li chiamano "topolinismi". Sono quegli espedienti narrativi che, appunto, funzionano a meraviglia ovunque l'asticella della sospensione dell'incredulità sia bella alta. Qualche esempio: un personaggio cammina su una spiaggia frequentata da centinaia di persone, inciampa su un mucchio d'alghe e trova un tesoro. Oppure, si ritrova in tasca solo un petardo, e con quello riesce a scatenare una esplosione che spazza via un intero edificio. O ancora, ha bisogno di un fusibile per rimettere in moto un sacramento che altrimenti niente, e guarda un po' che fortuna lo trova per terra.
Cose così, succedevano solo nei vecchi fumetti di Topolino. O negli albi Marvel della Silver Age, dove quando serviva c'era sempre a disposizione un Nullificatore assoluto®. O per dire, nei Bond Movies fra gli Anni 70 e il nuovo millennio.
Cui questo 007 Spectre, per molti versi, somiglia parecchio.
Intendiamoci, il nuovo Bond della premiata ditta Sam Mendes - Daniel Craig è la logica prosecuzione dei tre film che l'hanno preceduto, e a livello puramente formale un autentico manuale di cinema con i quattrini. Regia e montaggio sono impeccabili, e fra le scenografie stilizzatissime di Dennis Gassner e la fotografia di Hoyte Van Hoytema, il DP di Interstellar, c'è da riempirsi gli occhi. Craig, finalmente affrancato dall'ombra dei Bond precedenti e da quella ancor più ingombrante del "suo" Bond più umano, fragile e dark, gigioneggia ma sempre nei limiti di un personaggio che ormai gli calza come un guanto.
I limiti, invece, stanno tutti nel copione sciattissimo dei pur esperti Logan, Wade e Purvis per tacer di Butterworth: agnizioni e colpi di scena telefonati con anticipo biblico, tonnellate di quattrini bruciate in WTF?! plateali, luoghi comuni su luoghi comuni in quella che vorrebbe essere una festa citazionista ma alla lunga finisce per somigliare a uno stucchevole replay di cose già viste riviste straviste in tante vecchie pellicole, per giunta senza un briciolo di humour. E troppi, troppi finali per due interminabili ore e mezza di film. Per carità, non siamo allo zenit del ragionamento mongoloide di La morte può attendere. Ma nonostante l'eleganza della confezione, 007 Spectre dà l'impressione di uno di quei Bond che stanno lì, nel mucchio, una botta e via, senza nulla aggiungere e nulla togliere alla leggenda della spia di Ian Fleming. E soprattutto, è un film che fa tabula rasa del paziente lavoro di decostruzione e ricostruzione del mito operate nell'ultimo decennio e apre la strada a una restaurazione all'insegna dell'iperbole e dell'effettaccio ancorché aggiornati all'epoca dei vari Bourne, Kingsman eccetera: un'operazione da cui non a caso Craig pare orientato a volersi smarcare.



sabato 3 ottobre 2015

venerdì 2 ottobre 2015

Clic, è subito pop


Dagli A Certain Ratio agli Zingara, una collezione completa di tutte le cover realizzate da Storm Thorgerson, Aubrey Powell & C. quando gli uomini erano uomini, e i dischi vinili. È Hypgnosis Covers Dot Com. Un fan site che raccoglie una fracassata di idee pensate benissimo, disegnate benissimo e fotografate benissimo dall'omonimo studio. Con un unico scopo: fare la Storia del rock. Tanta musica da vedere e rivedere e magari usare come sfondo scrivania in altissima definizione o come guida per una ideale discoteca di Babele che ha lasciato un segno sull'immaginario di fine Novecento: una galleria d'arte pop a portata di clic.

martedì 29 settembre 2015

Il senso di Ridley per la Space Opera


Gusti davvero terribili in fatto di musica, The Martian, con una soundtrack talmente didascalica da non risparmiarci niente, neanche la telefonatissima Starman di Bowie. Ma c'era da farsi perdonare l'abominio di Prometheus. E in questo senso, Sir Ridley Scott ne esce piuttosto bene. Perché la nuova odissea nello spazio tratta dal romanzo omonimo di Andy Weir non ha la vocazione visionaria di Gravity né le ambizioni alte di Interstellar. Ma conferma lo straordinario mestiere del settantottenne (!) regista inglese, la sua cqpacità di lavorare con gli avanzi di tanto cinema ad alto budget per tirarci fuori ricette magari poco innovative, ma sempre efficacissime sul piano dell'efficacia narrativa e dello spettacolo puro.
Così, una pellicola di science fiction con una spolverata di science e l'accento sulla fiction si candida fortissimamente a diventare l'Apollo 13 di questa generazione, una storia già trita e ritrita messa giù alla bruttogiuda da Drew Goddard che però funziona alla grande nonostante tutti i luoghi comuni di cui è infarcita, o forse proprio in virtù di questi ultimi, compresa la martellata alla quarta parete dell'operazione Elrond. Una missione di salvataggio nello spazio, dove tutti possono sentirti urlare al guilty pleasure, con tutti i pregi e i difetti del caso. Manca la sequenza killer, mancano i guizzi visionari ed elegiaci che il Ridley Scott dei primi anni 80 sapeva ammannire al gentile pubblico. Ma in fatto di storytelling puro e semplice, tensione e puro appagamento, più di così proprio non si poteva fare. Prendessero nota, gli scarsissimi (in termini qualitativi, non quantitativi) epigoni del vecchio leone inglese.

sabato 26 settembre 2015

Notte e nebbia


Vivos se los llevaron y vivos los queremos: così, a un anno dalla scomparsa, i 43 studenti sequestrati e giustiziati nello stato messicano di Guerrero continuano a chiedere giustizia per bocca di amici e parenti.
Troppo fastidiosi, troppo colti e politicamente orientati questi studenti della Escuela Normal Rural di Ayotzinapa, troppo attivi nel denunciare le connivenze fra le alte cariche del governo e dell'esercito e le mani invisibili che come nei fumetti di Tex armano mani criminali per cacciare i contadini da terre troppo ricche di petrolio, gas o metallo giallo.
E la punizione esemplare di quel 26 settembre 2014 è stata peggio della morte, è la versione 2.0 del decreto hitleriano Nacht und Nebel, niemand gleich: la sparizione forzata. Un destino di non esistenza che parte dall'assenza di un cadavere per cancellare il crimine. E trasformare il trauma di una morte presunta in una paura di cui non ci si può liberare, in un lutto che non si può superare, in un sortilegio che paralizza voci e coscienze.
Perciò, il 26 settembre, hay que seguir la lucha. in Messico, con la grande manifestazione che oggi riempirà lo Zocalo, la grande piazza di Città del Messico. In tutto il mondo, con l'arma del ricordo, attraverso libri e inchieste bellissime e necessarie come "Ni Vivos, ni Muertos" di Federico Mastrogiovanni o "Silencio" di Attilio Bolzoni e Massimo Cappello. Perché parafrasando il sermone citato da Brecht, qualcuno deve pure restare a far casino prima che vengano a prenderci tutti.

lunedì 21 settembre 2015

Retep Nap



Ogni tre o quattro macchinette mangiasoldi buttate giù in fretta e furia per vendere macchinine, pop-corn e tricchetracche, in Pixar si ricordano dei bei tempi in cui furono uno studio creativo con i controcazzi. E investono in film fatti più per sfizio che per i grandi incassi.
È successo con Toy Story, che proprio nel novembre di quest'anno festeggerà i vent'anni dal debutto nelle sale. E nel corso degli anni, l'incanto si è ripetuto con Monsters & Co., Ratatouille e Up. Ecco, la buona notizia è che Inside Out punta deciso nella stessa direzione. Poco toyetic appeal e tanta ciccia complicata. Che però gli sceneggiatori della Factory californiana hanno tradotto in immagini splendide, magniloquenti e semplicissime da decodificare. E una sceneggiatura che descrive con una nitidezza degna di un Cuaròn la fatica di diventare grandi. Un Peter Pan al contrario, in cui Campanellino assume fattezze americanissime da stucchevole life-coach, i mondi fantastici dell'infanzia arrugginiscono e si sbriciolano a ogni pie' sospinto e il rifiuto di crescere arriva a tanto così da una deriva à là David Fincher. Una pellicola terribilmente ambiziosa nella stupefacente tecnica realizzativa ma anche nella volontà di trascendere il formato del film per famiglie per arrivare dalle parti dei melò animati di Miyazaki.
Il solito centro pieno, insomma, magari meno gratificante dei capolavori di cui sopra, magari più sbrigativo nel design dei Minions di contorno, sicuramente più faticato nella scrittura, che soprattutto nella seconda parte sembra un po' più incerta nelle gag e timorosa nell'affondare i colpi. Ma che lezione di recitazione, che attenzione per i dettagli, che sicurezza nella gestione delle sfumature: sono cose come queste che distinguono un fuoriclasse da un mestierante. E in questo senso, i ragazzi di Emeryville continuano a giocare un campionato a sé.

lunedì 7 settembre 2015

Marmoduke


Un guaito: ci ha lasciato Brad Anderson, papá del gigantesco Sansone che un tempo facette bella mostra di sé sul Topolino Mondadori.

venerdì 4 settembre 2015

Il maggiolino tutto sfatto



Il pilota di automobili tedesche disegnato da Jack Kirby ha tagliato il traguardo. Trionfo.

lunedì 31 agosto 2015

mercoledì 19 agosto 2015

AbBATtuta


Ciaone al sogno fetish giovanile di tutti noi, la bellissima Yvonne Craig. 

martedì 18 agosto 2015

Bella Z.I.O.

Vacanze romane
A maneggiare il post-pop, c'è il rischio di farsi del gran male. Così Matthew Vaughn, che solo qualche mese fa, con Kingsman - The Secret Service ha consegnato agli annali un film intimamente sbagliato, troppo zarro per i palati fini e troppo fighetto per i veri zarri. Ma chi il post-pop lo coltiva consapevolmente, nel glamour ci sguazza come una pantegana in una forma di zola al cucchiaio: così, spazio a Guy Ritchie, che con  Operazione U.N.C.L.E. ha scitto una nuova pagina di una filmografia che da Lock & Stock - Pazzi scatenati a Snatch a Rocknrolla a Sherlock Holmes ha composto infinite e sapide variazioni sul tema frusto e strafrusto del Buddy Movie, e ogni volta centrando il punto Dopo la Londra dei bassifondi e i salotti vittoriani, a questo giro l'aggiornamento di sistema tocca alla Roma godona degli Swinging sixties: un gruppo di fascionostalgici degno di un fumetto di Magnus si è ciulato una testata atomica all'indomani della Crisi dei missili di Cuba, e solo due persone al mondo sono in grado di fermarli: lo yankee Napoleon Solo (nella serie Tv originale che in Italia conosciamo in quattro, Robert Vaughn) e il russo Ilya Kuriakin (Nella serie Tv originale, David McCallum). Roba frusta e strafrusta, si diceva, per lo più figlia di un development hell durato un decennio per banali questioni di budget. Ma tutto questo, al cinema, non si vede. La trama scoppietta di battute snappy e colpi di scena, Superman e Lone Ranger sono assortiti come nelle vecchie pubblicità dei Super-Eroi Harbert, la fotografia riesce a far splendere anche la Rometta abbacchiata dei Casamonica, il gloss d'epoca qua e là è bugiardello ma irresistibile. Vista l'overdose di spie e l'imminenza del prossimo 007, la tentazione sarebbe quella di recuperarlo in Tv. E sarebbe un peccato, perché il cinema quando ci vuole ci vuole.

Dimenticato, un cazzo



Undici anni dopo il 26 agosto 2004, cercare Enzo Baldoni in Rete è un esercizio dal sapore amaramente surreale. C'è la balistica, c'è l'aneddotica, c'è l'amarezza orgogliosa dei familiari. Permane il lezzo delle formidabili stronzate scritte sull'argomento da chi ancora oggi continua a sostenere la teoria della guerra giusta (purché, ovviamente, ci crepino gli altri). E il dispiacere che i blog scritti da EGB durante le sue gitarelle fra Messico, Timor Est, Colombia eccetera siano tutti off line a eccezione di Bloghdad, ancora disponibile in .pdf grazie alla irriducibile Monica Rigato.
Per fortuna, a tenere accesa la fiammella provvedono le cronache dei tanti Enzo Baldoni ammazzati in giro per il mondo nel tentativo di raccontare realtà scomode. L'ultimo in ordine di tempo è il messicano Ruben Espinosa, torturato e poi giustiziato nella Capitale il 31 luglio scorso per aver tentato di rompere il silenzio sulle collusioni fra narcomafia e politica nello stato del Veracruz. Ma prima di lui ci sono Wolinski e i redattori di Charlie Hebdo. E i due turisti intelligenti James Foley e Steven Sotloff, scannati dall'Isis proprio un'estate fa. E il siriano Mahran al Deeri, ucciso nel dicembre 2014. E gli altri 100 e passa reporter passati a miglior vita fra il 2014 e il 2015 per aver fatto il proprio mestiere. Ecco, ogni volta che la Rete, i giornali e la Tv mi mettono di fronte la foto di un reporter ucciso per essere stato troppo curioso, troppo rigoroso, troppo sorridente, troppo acuto, la testa torna a quel 26 agosto del 2004, a Najaf. Purtroppo, sempre per i motivi sbagliati.

giovedì 23 luglio 2015

Anche le formiche nel loro piccolo incassano

Positive buzz
Primo film della fase tre o ultimo della fase due? Dispute di lana caprina in salsa nerd. Nonostante le difficoltà produttive che ne hanno segnato la realizzazione, il passaggio di mano fra Edgar Wright e il carneade Peyton Reed, il budget discreto ma non stellare e un cattivo che sembra una copia carbone dell'Obadiah Stane di Iron Man, Ant-Man è una action comedy niente male. Merito di una sceneggiatura che ibrida disinvoltamente la più classica delle storie di origini con il più classico degli heist movie, senza dimenticare che un cinefumetto Marvel ha sempre il sorriso sulle labbra. Un film per famiglie nell'accezione più positiva del termine, buono per gli spettatori da 9 a 99 anni, sorretto da una regia non personalissima ma minimale e scattante come una formica e da un cast che trova i suoi migliori interpreti nell'eroe riluttante Paul Rudd e nel grande vecchio Michael Douglas, gigione ma misurato. Per portare sullo schermo l'improbabile micronauta lanciato da Stan Lee e Jack Kirby su Tales to Astonish # 27 (1962) ci volevano coraggio, danè e la capacità di garantire allo spettatore la sospensione dell'incredulità necessaria per credere che un uomo possa rimpicciolire a dimensioni lillipuziane. Finora, il colpo era riuscito solo a Richard Fleischer in Viaggio allucinante e a Joe Dante in Salto nel buio: ma come dice il vecchio detto, non c'è due senza tre. Ora non resta che convincere i tantissimi che ancora non hanno letto La fisica dei supereroi (consigliatissimo, anche sotto l'ombrellone) che un uomo in grado di farsi piccino picciò sia in grado di diventare alto quanto la statua della libertà: ma per quello c'è il prossimo capitolo degli Avengers, puntualmente annunciato nella scena post-crediti.

Corto circuito



È un film che arriva sugli schermi con una buona ventina d'anni di ritardo questo Pixels di Chris Columbus. Dalle parti di metà anni 90, l'effetto nostalgia per pellicole come Ghostbusters e videogame coin-op seminali come Pac-Man o Donkey Kong avrebbe senz'altro conquistato i cuori e le menti di tutti i figli del Boom. Ma arrivando nel 2015, per di più dopo un piccolo gioiello furbetto e citazionista come il disneyano Ralph Spaccatutto, il blockbuster a 8 Bit della Sony appare irrimediabilmente anacronistico sotto tutti i punti di vista che contano - scrittura, caratterizzazione dei personaggi, mix di azione e commedia, spirito globale. E dunque: film rigorosamente per ragazzini, che però per ragioni meramente anagrafiche i rutilanti eighties non li hanno visti nemmeno con il binocolo, E mentre loro stanno lì a chiedersi chi cacchio sono i mostrilli scalettati che vogliono distruggere il mondo e soprattutto perché mai dovrebbero preferirli a Call of Duty, i loro papà possono contorcersi sulle poltrone ricordando il peggio degli 80s: le performance attoriali di Bombolo e Cannavale, i doppi sensi delle commedie sexy, il product placement dei migliori film di Castellano & Pipolo. Unica luce nel buio, il trucchetto di far parlare gli alieni invasori sotto mentite spoglie videoludiche con gli spezzoni dei vecchi telefilm. Ma anche lì, il rischio corto circuito è elevatissimo: perché rendersi conto di faticare a riconoscere Hall senza Oates ti fa pensare di essere obsoleto. Come certo cinema.

martedì 21 luglio 2015

sabato 18 luglio 2015

A favore di Contro

Bù!
Forse non è un caso che Gianmaria Contro abbia atteso quasi tre annate di LeStorie per fare il suo debutto sulla collana. Il lavoro di curatore di testata lascia davvero poco spazio alla scrittura. In più, l'orrore gotico, con i suoi chiaroscuri, le sue ricercatezze linguistiche e i suoi giochi di atmosfere, richiede cesellature e tempi più lunghi di altri stili narrativi prèt-à-porter. Sta di fatto che leggendo L'innocente, trentaquattresimo numero della testata Bonelli una-botta-e-via, viene da sperare che Contro scriva di più, è più spesso: il suo thriller molto Visconti, molto Poe e una spruzzatina di Tim Burton, con le sue temperature da rigor mortis, è in grado di riservare freschi brividi anche ai lettori più incalliti. Parte del merito è anche del disegnatore Francesco Ripoli, qui alla sua seconda LaStoria dopo Il lungo inverno, e autore di una prova assolutamente maiuscola in grado di far dimenticare le (pochissime) sbavature del suo primo confronto con la inossidabile gabbia Bonelliana.  Da leggere anche il primo numero della miniserie Tropical Blues, scritta da Luigi Mignacco e disegnata da Marco Foderà: un ibrido dichiarato fra le ambientazioni esotiche di Hugo Pratt, e le atmosfere ruvidamente pop di fiori all'occhiello della casa editrice come "Mister No", per una lettura che fila via placida e scorrevole come una vela sull'oceano e lascia addosso quel piacevole senso di insoddisfazione dei migliori feuilleton a puntate. Due esempi fra i tanti, per dimostrare che la nuova Sergio Bonelli Editore non è poi così immobile/farraginosa/autoreferenziale come la si dipinge: in realtà, nell'estate di via Buonarroti c'è molto di fresco sotto il sole. 

lunedì 29 giugno 2015


Se ne va Chris Squire, indimenticabile bassista solista degli Yes.

venerdì 26 giugno 2015

John Stiff

Goodbye

Agente a terra: l'immenso Patrick Macnee ha concluso la sua missione.

mercoledì 24 giugno 2015

La famiglia Deadford



Se n'è andato Dick Van Patten.

Vendesi buona musica un tanto alla libbra

Dormando preoccupato

Hai voglia a raccontare al pischello medio odierno cosa ha rappresentato per il medio pischello Anni settanta l'avventura del rock progressivo. Hai voglia a spiegargli la differenza fra gli impasti vocali marca Beatles degli Yes, le dissonanze gamelan dei Crimson e le fughe jazz-rock dei Genesis. Hai voglia a contrapporre ai fiumi di parole e parolacce disinfettate degli Emis Killa di turno canzoni che con quarant'anni di anticipo già parlavano di vecchi pedofili, mignotte o di una inghilterra che già lasciava presagire lo sfascio punk del Thatcherismo. Meno male che c'è la nuova iniziativa editoriale del gruppo Espresso-Repubblica: una collana di 21 Cd in uscita ogni martedì messa insieme per riassumere l'avventura musicale di unn genere che ancora oggi, con gruppi come Porcupine Tree, Gazpacho, Radiohead o Muse mostra di avere ancora parecchio fuoco nelle vene. Si comincia con quello che forse è il miglior disco dei Genesis con Peter Gabriel, cioè Selling England by the Pound. Buona musica all'aroma di cuoio, birra scura e pioggia, a soli euro nove e novanta. E la intro assolutamente enorme di Firth of Fifth. Roba che resta, come la copertina illustrata da Betty Swanwick qui sopra. Un eterno, insinuante autunno dell'anima da sentire addosso in ogni stagione.

lunedì 15 giugno 2015

Videoburrito RGB





"Lagrimas, Sal y Limon": più colori primari che in un porno tedesco del 1975, più durango sopra i pantaloni che in tutta la collezione di Tex Willer.

giovedì 11 giugno 2015

Jurassic World: uomini che corrono con i Raptors

Meeemmm meeemmm meeemmm
Firmato il contratto per Jurassic World, Colin Trevorrow e i suoi si sono chiusi in casa col Dvd di Aliens e se lo sono riguardato fino al vomito, prendendo diligentemente nota di tutto quello che funzionava alla grande e del niente che no.
Poi sono andati sul set, e l'hanno rigirato paro paro. Con i dinosauri al posto degli xenomorfi. E mettendoci tutte, ma proprio tutte le furbate muscolari Anni 80 di James Cameron: la grettezza smithiana della Kompagnia fondata ma non più gestita dal filantropico Hammond, la sicumera del maschiaccio pesantemente armato di fronte alla potenza soverchiante dell'istinto, gli executive fighetti che state sereni tanto è tutto sotto controllo e poi la regina, i fuchi, le scaramucce in remoto con le bestemmie gracchianti e i segnali vitali dei fantaccini che saltano uno via l'altro, le bocche irte di denti che sbucano dall'angolino a cinque mm dalle smorfie di terrore dei nostri, fino all'inquadratura della saracinesca che si solleva lenta nel finale a disvelare il contraltare sano e giallo del boss di fine livello. Mancava giusto che Bryce Dallas Howard sparasse un bel Get away from them you bitch e, bingo!
La cosa figa è che il gioco è talmente smaccato e onesto da funzionare.
Certo, come direzione degli attori Trevorrow è una pippa e lo si vede nelle scene in cui i suddetti dovrebbero esprimere qualcosa che vada al di là dell'ussignùr de la madona: lì, va detto, Jurassic World perde qualcosina e lascia intuire che a questo giro Spielberg ha girato al largo dal set.
Ma finché si tratta di correre sopra e sotto e in mezzo e di fronte e didietro ai raptors, gli pterodattili e i minchiasauri il reboot di Jurassic Park sta lì lì con Il mondo perduto.
Una bella pensata per i (troppi) tweens che non hanno mai visto Aliens al cinema, ma anche per quei papà che con l'ultimo, stanco episodio della serie si erano emozionati quanto osservando il perlage delle bollicine in un bicchiere di minerale gassata. Al cinema tranquilli, insomma: in queste copie di copie di dinosauri c'è ancora un po' di sana ferocia, e almeno un paio di sequenze ottimamente orchestrate e imbevute di funambolica suspense.
Difetti, pochissimi e veniali: il soundtrack invasivo di Michael Giacchino, che scimmiotta John Williams come Wagner con Beethoven, cioè alzando il volume della fanfara oltre ogni ragionevole limite. Il solito finale-teaser a promettere l'immancabile sequel, e chissà che cacchio s'inventano alla prossima. E il 3D, mai tanto gratuito come a questo giro. Piuttosto, tenere da parte i soldini per lo schermo IMAX. Quello, sì, dovrebbe valere la pena.

giovedì 4 giugno 2015

Il cavallo di ferro del west

Su Fury si sta anche in tre
Più Band of Brothers o The Pacific che non Salvate il soldato Ryan questo Fury di David Ayer. Una variazione sulla guerra brutta sporca e desaturata portata al cinema da Fuller nei 70' e rilanciata da Steven Spielberg vent'anni dopo. E un remake sotto mentite spoglie del bellissimo e claustrofobico U-Boot 96 di Wolfgang Petersen, con l'abitacolo di uno Sherman a fare le veci del ventre umido di un sommergibile. Luoghi comuni in abbondanza nella scrittura dei personaggi, con la soldataglia indurita dalla guerra alle prese con la burba appena arrivata al fronte. E una sorprendente, cieca determinazione nel cancellare dall'orizzonte il nemico, che come in Black Hawk Down (o nelle scene di massa degli ultimi episodi di Il Trono di Spade…) diventa magma ostile, pura malvagità, carne da cannone nell'accezione più letterale del termine. Così, le parti migliori del film sono quelle di pura filosofia visiva, come la fulminante, brutale apertura dove la guerra è ridotta alla sua forma più astratta, o i momenti dove è sublimata in pura attesa, nel mostro incombente come un lupo alla porta. Virtuosismi umani, che sfruttano al meglio una sporca quasi mezza dozzina perfettamente in parte e fanno ben sperare per l'imminente Suicide Squad. Ecco, se proprio proprio di papà Steven mancano il seme del dubbio, la vigliaccheria, il terrore della morte che pervade allo stesso tempo vittime e carnefici. Ma Fury è un film a tesi, e la tesi è che à la guerre come à la guerre.

martedì 19 maggio 2015

Attrazione fatale

Futuro, anteriore

In Tomorrowland - il mondo di domani c'è un bel po' di roba che funziona.
Per esempio, la regia a centottanta all'ora di Brad Bird. Che per Tomorrowland, va detto, ha rimbalzato la regia di Star Wars VII.
Il Production Design retrofuturista di Scott Chambliss.
Il montaggio spaccaculi di Walter Murch.
L'idea di un film di fantascienza young adults originale. Almeno nella misura in cui può esserlo una pellicola ispirata a un'attrazione di Disneyland (la più popolare di sempre, secondo le cronache).
E poi c'è Damon Lindelof.
Che in mancanza del potenziale narrativo già presente in attrazioni già tradotte in cinema come Pirati Dei Caraibi o La Casa dei fantasmi ha arruolato come co-sceneggiatore Jeff Jensen, già su Lost. E si è inventato una specie di Interstellar per bambini però infrociato con Terminator più una spruzzatina di Elysium e suggestioni giappo stile Chobits più un sacco di altre cazzatielle messe lì giusto per riempire una trama già bella articolata e densa di suo.
Il risultato è un blockbuster diesel che prende quota lentamente prima di esplodere letteralmente come un fuoco d'artificio digitale. Un film piuttosto diseguale, perennemente in bilico fra commedia e dramma, aperture tipicamente disneyane e provocazioni mutanti à la Cronenberg, ebbrezze visive e seduzioni impossibili, uno spettacolone glassato di zuccherosa spensieratezza ma con un cuore freddo e venato di malinconia: troppo adulto per i ragazzini, troppo ragazzino per i grandi. Il perfetto aperitivo live action all'altra pellicola Disney della stagione, quell'Inside Out che già si profila all'orizzonte come un nuovo capolavoro Pixar. 

venerdì 15 maggio 2015

Una vita al Max

Vroom Vroom

E all'improvviso, tutto il cinema action degli ultimi cinque anni s'impolvera tutto d'un colpo, con tutti i suoi sbrilluccichi gli effetti digitali i cieli corruschi i nuvoloni i six-packs a tutto il resto. A rimettere a posto le cose ci pensa George Miller. Un senior, con le sue settanta primavere e i suoi acciacchi anche cinematografici, che non tutto il suo CV è al di sopra di ogni sospetto. Però, un cineasta curioso, che quando occorre riesce a prendersi i suoi rischi, vedi Babe-Maialino coraggioso e i pinguini danzerini di Happy Feet. Anche tirar fuori dalla naftalina Mad Max, a dirla tutta, era una bella scommessa: un personaggio esploso alla grande a fine Anni Settanta con Interceptor e poi diluito in dosi sempre più omeopatiche durante la decade successiva fino alla deriva glam di Mad Max - Oltre la sfera del tuono. Un protagonista iconico come Mel Gibson da sostituire per sopraggiunti limiti d'età. E una concorrenza spietata in termini di ottani, muscolarità e impatto visivo. A uscire triturata da questo Mad Max: Fury Road, però, è proprio quella certa idea di cinema che a suon di giochi di prestigio generati dal computer ha tolto al cinema de suore e de mena' tutto il suo senso del meraviglioso. Perché nel nuovo episodio della serie (è un prequel? È un sequel? È un reboot? Chi se ne fotte) gli effetti ottici sono ridotti al 20% contro un 80% di effetti meccanici, shunt, coreografie e fabulae. E quindi: macchine da presa e da battaglia sempre piazzate nei punti giusti, a tradurre in un impatto visuale mozzafiato i panorami gialli e rossi della Namibia in cui è girato il film. Un'estetica grafica e narrativa sempre coesa e funzionale alla trama, con infinite allusioni a un universo espanso punteggiato di rituali, tic, vezzi, slogan, routine, maschere, tatuaggi, eccetera, tutta roba che aggiunge spessore e senso epico al racconto (d'evasione). Un cast perfetto, con tanto di cameo della ex Wonder Woman Megan Gale. e last but not least, azione. Tanta. Adrenalinica. Brutale (nei limiti del PG-13). A ben guardare, anzi, il film in sé è una ininterrotta sequenza d'azione di un'ora e cinquantatré minuti, con meno battute che un blocchetto di Post-It ma più ciccia e solidità del novanta per cento dei blockbusters in circolazione. L'unico neo, a ben guardare, sta nel finale aperto, chiaro annuncio di prossimi episodi. Perché un giocattolo di questa fatta dà tanta soddisfazione che viene difficile pensare a un seguito sullo stesso livello. L'augurio è che George Miller non perda la voglia di sperimentare: di turisti dei popcorn movie in giro ce n'è già più che a sufficienza.

martedì 28 aprile 2015

Vedi Napoli e poi godi

Vide 'O Mare Quant'è bello
Ospiti internazionali di livello, da Kevin O'Neill (Marshal Law,  La lega dei gentiluomini straordinari) a Leo Ortolani (Rat-Man, e chi se no?), da Tanino Liberatore (Ranxerox) a Yoshiki Tonogai (Doubt). Una grande mostra sul rapporto fra fumetto e stampa a includere sezioni sui 50 anni di Linus e sul Graphic Journalism. Più il consueto ventaglio di iniziative fra cosplay e videogames, oltre a un robusto pattuglino di stand pronti da perquisire alla ricerca delle ultime novità della nona arte, volumi imperdibili come la ristampa del Kamasutra di Jacovitti, la raccolta del leggendario Fritz il Gatto di Crumb, o ancora chicche come la cover "white album" Saldapress dedicato al super-eroico Invincible di Robert Kirkman o la variant cover con stampa a caldo di "Guerra Totale", la nuova, divorante saga nella saga di The Walking Dead. È sempre più ricco il menu di Napoli Comicon, la XVII edizione della kermesse che fra il 30 aprile e il 3 maggio prossimi illuminerà la Mostra d'Oltremare del capoluogo campano. Biglietti a partire da 10 euro per il giornaliero, e tutto gratis per i bambini sotto i 6 anni, per cui c'è tanto di area riservata for Kids. Un grande artista come Jean "Moebius" Giraud aveva girato uno dei suoi più suggestivi e fantasmagorici film a fumetti proprio a Napoli: non è difficile intuire il perché,

mercoledì 22 aprile 2015

Avengers - Age of Ultron: piatto ricco mi ci ficco

All you can eat


Menù a buffet, ma da strafogarsi, quello di "Age of Ultron", secondo film ispirato agli Avengers. D'altro canto, il mandato dei Marvel Studios era chiarissimo: bissare i successi stellari del film ispirato al super-gruppo messo insieme da Lee e Kirby nel 1963 alzando ulteriormente un'asticella già bella alta di suo.
E quindi: un cast di maschere ulteriormente allargato ai nuovi entrati Quicksilver e Scarlet Witch, senza contare l'androide esistenzialista Visione; una esperienza filmica più ricca, tonitruante e immersiva; una minaccia globale più folta, pervasiva e infestante; un comparto visivo più vertiginoso sul piano delle magie live-action e degli effetti digitali.
A questo giro, l'effetto spiazzamento sta tutto nella scelta di lasciare in secondo piano i ragazzi irresistibili Iron Man, Capitan America e Thor e i momenti comedy per concentrare tutto il nocciolo emotivo del film sullo strepitoso Ultron di James Spader e sul melo super-eroico.
Spazio quindi agli affetti gli why e i because di/fra gli outsiders del gruppo, dalla Vedova Nera, a Hulk, fino all'insospettabile family man Clint Barton e ai gemelli Wanda e Pietro, a dar corpo e sostanza a una trama divisa in tre atti e stavolta abbastanza avara di scampoli frivoli, soprattutto nel mezzo del cammin. A ben guardare, il meglio di questo secondo episodio sta proprio qui: nel cambio di registro, nell'ambizione retorica e nella capacità di Joss Whedon di mettere in scena con consapevolezza tutte le action figures a sua disposizione. Tutte cose di cui la Distinta Concorrenza farebbe meglio a tener conto, visti i programmi in essere.
Il resto è pura bulimia sensoriale realizzata seguendo traiettorie e angolazioni impossibili che apparentano gli eroi post-moderni dei fumetti a quelli manichei e senza tempo del cinema fantasy di Peter Jackson: corazze e frecce e saette e coreografie impossibili che riempiono occhi e stomaco dal primo all'ultimo di questi centoquaranta minuti di spettacolo sottolineando il legame a doppio filo fra gli eroi transmediali, i loro omologhi western e quelli arcaici del mito.
Il difetto, se proprio proprio, sta nell'eccesso: per chi è assuefatto al cinema cavalleresco modellato sulle tavole dei comic books, panza piena e satolla già dopo il primo quarto d'ora di acrobazie circensi. Che nel corso della vicenda vanno a crescere fin sotto l'Happy End, apertissimo come nella migliore tradizione.
Tanta roba, invece, per il target ragazzino di riferimento che dal 22 aprile affollerà multiplex, negozi di giocattoli, fast food eccetera. Unico, vero appunto il 3D, inutile patina dark su un film già piuttosto scuretto in partenza. Ma l'IMAX Experience, per questo cinema più grande della vita, ci sta tutta.

mercoledì 15 aprile 2015

Herb Triste



Se ne va un grande artigiano dei super-eroi: Herb Trimpe, il primo penciller di un certo mutante con i pugni (e gli artigli) nelle mani.

martedì 14 aprile 2015

Castelli in aria


Il Buon Vecchio Zio Alfy non sembra prendere mai niente troppo sul serio.
Il che tradisce la serietà con cui affronta il suo mestiere, il suo approccio alla scrittura, la sua sottile malinconia. Una malinconia che forse dipende dai 50 anni di fumetti, o forse chissà.
Come tutti gli autori di fumetti che conosco, il Buon Vecchio Zio Alfy vive in una bolla spazio temporale a sé, lontanissima dalla nostra realtà, ma regolata da leggi precise.
La prima è non prendere mai niente troppo sul serio.
A parte questo, ci sono: rimandare gli impegni sgradevoli sine die con scuse degne di un feuilleton  ottocentesco, sapere tutto di fumetti dei quali il novantanove per cento del mondo ignora l'esistenza, inventarsi ogni tanto un format nuovo e la nobile arte di scoraggiare gli aspiranti sceneggiatori di Martin Mystère dallo scrivere le storie del suddetto.
Che tu arrivi lì pensando a un'idea pim pum pam su Martin Mystère e lui ti dice stai manzo, che Martin Mystère è un Piero Angela biondo un po' più più logorroico.
Senza mai prendersi troppo seriamente, chiaro.
Io al Buon Vecchio Zio Alfy lo stimo un casino.
Un po' perchê scriveva i fumetti che leggevo da ragazzino, tipo gli Aristocratici e l'Omino Bufo e Mister No.
Un po' perché mi ha lasciato scrivere Martin Mystère, che a pensarci ogni tanto a pensarci mi dò dei pizzicotti per vedere se è vero e accidenti, sembra proprio così.
È un po' ci voglio bene perché anche se non fosse ancora chiaro non si prende mai troppo sul serio.
Ecco, invece in questi giorni il buon vecchio zio Alfy ha organizzato una roba da prendere molto sul serio. Tre serate dove si parlerà di cosa sono, come si fanno e come si spacciano i fumetti. Con un sacco di special guest e di sorprese.
Secondo me, vale la pena passarci.


lunedì 13 aprile 2015

Vitamina!

Venite venite parvulos

È una buona notizia a metà l'uscita di Vitamina.
Da un lato, infatti, ogni nuovo tentativo di rivista per bambini ini ini andrebbe accolto con i proverbiali 15 minuti di applausi registrati. Dall'altro, si tratta di una localizzazione - quella della rivista francese J'aime lire, 2 milioni e passa di lettori in terra d'oltralpe.
Ma nell'attesa che anche nel nostro bistrattato Paese mille fiori fioriscano (basterebbero anche un paio di carciofi, eh, niente de che) tocca fare il conto dei pischelli di casa a includere figli nipoti e amici di amici, e fulminare in edicola a cercare questo pocket. Costa poco, due duri e novanta, ma promette piuttosto bene. Non è una spesa: è una piccola scommessa sul futuro.

mercoledì 8 aprile 2015

La Storia siamo lui




Vent'anni passati ad aspettare la fine di una leggenda in un mondo che nel frattempo ha cominciato a danzare su ritmi diversi, più prevedibili, più avari di grazia e autentica leggerezza.
Non è più tempo di farfalle nello stomaco. E infatti, i sogni hanno ceduto il passo al pragmatismo primordiale dei liberisti puri. Non è nemmeno più tempo per gli eroi problematici. Quelli dei decenni passati, come Corto Maltese, Lo Sconosciuto o Mister No, sono usciti di scena da un pezzo e le loro avventure meravigliose e potenti oggi incombono sulla scena come eredità scomode, manieri preziosissimi e sconfinati difficili da aprire a un pubblico barbarico, impossibili da adattare a contesti più micragnosi e onerosissimi da gestire. In un altro tempo, in un'altra realtà, tutti potevamo permetterceli. Ma oggi, sono diventati un lusso. Un elefante nel tinello. Un ideale adolescenziale da superare. Per arrivare con Emily Dickinson fin dove arriva il mattino.
Berardi e Milazzo hanno rimandato il viaggio finché hanno potuto, forse consapevoli della difficoltà improba di regalare a questo eroe così normale e così straordinario un'uscita di scena degna della sua storia editoriale. Serviva un coup de theatre capace di risarcire i tanti orfani di Ken degli anni passati rimpiangendo gioielli come La Ballata di Pat O' Shane, Lily e il cacciatore o Sciopero. Serviva un ritorno all'essenziale della serie, quel misto di ineluttabilità, antispettacolarità e furore elegiaco cui gli autori genovesi ci avevano abituato. E infatti, andiamo a parare proprio lì.
Chi ha orecchie per intendere, l'avrà già capito: alla fine di questa cavalcata non ci sarà nessuna ricompensa, nessuno scioglimento dell'intreccio, nessun finale compiuto. Solo l'unico intrinsecamente sensato rispetto all'irripetibile parabola narrativa di Lungo Fucile. La strada verso il sole che sorge è stretta, ripida e aspra, senza ombre di cameratismo o comic relief. Ogni pagina di questo capitolo finale anticipa una catarsi perfettamente imperfetta e totalmente rispettosa dello spirito della serie, un finale non finito che nel suo rigore risulta quasi insopportabile. Non c'è mai stato spazio per le anime belle, nel West dei vecchi dagherrotipi e delle storie di frontiera che Ken replicava con trasporto sulla carta. E a maggior ragione, non può esserci nemmeno in questa cinquantesima uscita.
Come accennato più su, non è più tempo di eroi problematici. Con o senza un certo scout, sembrano dirci quei meravigliosi figli di buona donna di Berardi e Milazzo, i fumetti continueranno a uscire, il mondo continuerà a girare, il sole continuerà ad alternarsi con la luna, le persone continueranno a vivere e morire. La Storia, insomma, continuerà a fare il proprio corso, con la sua logica mastica e sputa. Ecco, più che alla Dickinson, arrivati all'ultima pagina dell'avventura il pensiero corre al finale tremendamente umano buio e vertiginoso del bellissimo romanzo omonimo di Elsa Morante: "Si dice che in certi stati cruciali davanti agli uomini ripassino con velocità incredibile tutte le scene della loro vita. Ora nella mente stolida e malcresciuta di quella donnetta, mentre correva a precipizio per il suo piccolo alloggio, ruotarono anche le scene della storia umana (La Storia) che essa percepì come le spire di un assassinio interminabile. (...) Tutta la Storia e le nazioni della Terra s'erano concordate a questo fine". So long, Ken. Ci mancherai un sacco.

giovedì 2 aprile 2015

Avanti, c'è posto


Trasporto pubblico al estilo mexicano: ne avevamo già parlato qui.
Vale la pena di tornarci sopra per segnalare che Internacional, la automotive company preferita dai conducenti di peseros, ha messo on line a gratis un magnifico volume fotografico sul mondo dei microbus. Belle foto, bei mezzi, belle facce, bei viaggi da fare sfogliando il proprio tablet. Non proprio come essere là, ma quasi. Il libro si chiama Subale, Hay Lugares. In carrozza, qui.


mercoledì 1 aprile 2015

Chappie ch'el gh'è




Il vero mistero dietro Chappie sta nella scelta di Sony di distribuire nell'arco di poco più di un anno una specie di Robocop.
Guarda caso, quello di Blokamp è il film più piacevole dei due. Ma oltre al flop platinato del remake dello sbirro cibernetico, qui c'è da scontare l'ulteriore aggravio delle stroncature piuttosto ingenerose già patite negli Usa. Nonché di un titolo magari più badass di quello originale al gusto cibo per cani, ma terribilmente melò.
Al sodo, quella di Chappie e né piú né meno la fiaba collodiana di un burattino di titanio che sogna di diventare un bambino vero e che nel corso di questo proletario e futuribile bildungsroman deve sobbarcarsi un master in crudeltâ umana con i controfiocchi. Con tutti gli sfracelli del caso. Presente il classicissimo e sgangherato Pinocchio Super-Robot di Bunker & Chies? Eccaallà.
I limiti del film stanno tutti nella scrittura, che rispetto al precedente-monstre di District 9 fatica a far convivere l'anima lieve e le aspirazioni gravi di Chappie, pardon Humandroid. La sintesi è un giocattolone dichiaratamente disomogeneo nel mix di generi come il thriller, la commedia e il sentimento, un tantino teen nelle scorciatoie e nel character design, ma impattantissimo sul piano visivo. Un b-movie piuttosto accattivante, che con un po' di cinismo à la Verhoeven sarebbe potuto diventare un cult e oggi, purtroppo, rischia più per inflazione fantasy-robotica che per demeriti intrinseci. Certo, poi da Blokamp è lecito aspettarsi ben altro: ma chissà che il ritorno al genere alieni bavosi non gli giovi.

lunedì 23 marzo 2015

Giocando in casa




Non c'è niente di particolarmente innovativo, in Home - A casa, il lungometraggio animato della Dreamworks che segue di pochi mesi il flop I pinguini di Madagascar.
Ma al netto delle scelte rassicuranti sul piano della trama e della caratterizzazione, la trasposizione in film del best seller di Adam Ray è un film irresistibile, toccante, disneyano nella senso migliore del termine, cioè nell'equilibrio fra sorriso e melò, molto vicino nello spirito a bei film per famiglie come E.T. - L'extraterrestre o Lilo & Stitch pur nella sua distanza dalla poetica di Spielberg o Chris Saunders o nel riciclo un po' cheap di certe soluzioni narrative (quel capitano Smek così simile a tanti altri re sbruffoni di casa Dreamworks...).
E insomma, è un peccato che il film arrivi sugli schermi solo poche settimane dopo l'annuncio del pesante ridimensionamento degli studios di animazione californiani, con il licenziamento di centinaia di animatori e il drastico ridimensionamento dei film in lavorazione. Perché la storia scorre che è un piacere, il conceptual design del film oscilla piacevolmente fra Magritte, Roger Dean e la scuola di Metal Hurlant, i tempi comici sono il più delle volte azzeccati, la scrittura agile. E pazienza se il finale del film suona scontato come quelli di tanti filmetti per famiglie: a compensare l'eccesso di zuccheri c'è la simpatia weirdo fra il polipetto gommoso Oh e la sua best buddy umana. Una strana roba insinuante che cresce nella panza man mano che il film procede, e insieme a quanto sopra lo eleva diversi gradini più in alto di tanti compitini in CGI arrivati sugli schermi negli ultimi anni.