lunedì 29 giugno 2015


Se ne va Chris Squire, indimenticabile bassista solista degli Yes.

venerdì 26 giugno 2015

John Stiff

Goodbye

Agente a terra: l'immenso Patrick Macnee ha concluso la sua missione.

mercoledì 24 giugno 2015

La famiglia Deadford



Se n'è andato Dick Van Patten.

Vendesi buona musica un tanto alla libbra

Dormando preoccupato

Hai voglia a raccontare al pischello medio odierno cosa ha rappresentato per il medio pischello Anni settanta l'avventura del rock progressivo. Hai voglia a spiegargli la differenza fra gli impasti vocali marca Beatles degli Yes, le dissonanze gamelan dei Crimson e le fughe jazz-rock dei Genesis. Hai voglia a contrapporre ai fiumi di parole e parolacce disinfettate degli Emis Killa di turno canzoni che con quarant'anni di anticipo già parlavano di vecchi pedofili, mignotte o di una inghilterra che già lasciava presagire lo sfascio punk del Thatcherismo. Meno male che c'è la nuova iniziativa editoriale del gruppo Espresso-Repubblica: una collana di 21 Cd in uscita ogni martedì messa insieme per riassumere l'avventura musicale di unn genere che ancora oggi, con gruppi come Porcupine Tree, Gazpacho, Radiohead o Muse mostra di avere ancora parecchio fuoco nelle vene. Si comincia con quello che forse è il miglior disco dei Genesis con Peter Gabriel, cioè Selling England by the Pound. Buona musica all'aroma di cuoio, birra scura e pioggia, a soli euro nove e novanta. E la intro assolutamente enorme di Firth of Fifth. Roba che resta, come la copertina illustrata da Betty Swanwick qui sopra. Un eterno, insinuante autunno dell'anima da sentire addosso in ogni stagione.

lunedì 15 giugno 2015

Videoburrito RGB





"Lagrimas, Sal y Limon": più colori primari che in un porno tedesco del 1975, più durango sopra i pantaloni che in tutta la collezione di Tex Willer.

giovedì 11 giugno 2015

Jurassic World: uomini che corrono con i Raptors

Meeemmm meeemmm meeemmm
Firmato il contratto per Jurassic World, Colin Trevorrow e i suoi si sono chiusi in casa col Dvd di Aliens e se lo sono riguardato fino al vomito, prendendo diligentemente nota di tutto quello che funzionava alla grande e del niente che no.
Poi sono andati sul set, e l'hanno rigirato paro paro. Con i dinosauri al posto degli xenomorfi. E mettendoci tutte, ma proprio tutte le furbate muscolari Anni 80 di James Cameron: la grettezza smithiana della Kompagnia fondata ma non più gestita dal filantropico Hammond, la sicumera del maschiaccio pesantemente armato di fronte alla potenza soverchiante dell'istinto, gli executive fighetti che state sereni tanto è tutto sotto controllo e poi la regina, i fuchi, le scaramucce in remoto con le bestemmie gracchianti e i segnali vitali dei fantaccini che saltano uno via l'altro, le bocche irte di denti che sbucano dall'angolino a cinque mm dalle smorfie di terrore dei nostri, fino all'inquadratura della saracinesca che si solleva lenta nel finale a disvelare il contraltare sano e giallo del boss di fine livello. Mancava giusto che Bryce Dallas Howard sparasse un bel Get away from them you bitch e, bingo!
La cosa figa è che il gioco è talmente smaccato e onesto da funzionare.
Certo, come direzione degli attori Trevorrow è una pippa e lo si vede nelle scene in cui i suddetti dovrebbero esprimere qualcosa che vada al di là dell'ussignùr de la madona: lì, va detto, Jurassic World perde qualcosina e lascia intuire che a questo giro Spielberg ha girato al largo dal set.
Ma finché si tratta di correre sopra e sotto e in mezzo e di fronte e didietro ai raptors, gli pterodattili e i minchiasauri il reboot di Jurassic Park sta lì lì con Il mondo perduto.
Una bella pensata per i (troppi) tweens che non hanno mai visto Aliens al cinema, ma anche per quei papà che con l'ultimo, stanco episodio della serie si erano emozionati quanto osservando il perlage delle bollicine in un bicchiere di minerale gassata. Al cinema tranquilli, insomma: in queste copie di copie di dinosauri c'è ancora un po' di sana ferocia, e almeno un paio di sequenze ottimamente orchestrate e imbevute di funambolica suspense.
Difetti, pochissimi e veniali: il soundtrack invasivo di Michael Giacchino, che scimmiotta John Williams come Wagner con Beethoven, cioè alzando il volume della fanfara oltre ogni ragionevole limite. Il solito finale-teaser a promettere l'immancabile sequel, e chissà che cacchio s'inventano alla prossima. E il 3D, mai tanto gratuito come a questo giro. Piuttosto, tenere da parte i soldini per lo schermo IMAX. Quello, sì, dovrebbe valere la pena.

giovedì 4 giugno 2015

Il cavallo di ferro del west

Su Fury si sta anche in tre
Più Band of Brothers o The Pacific che non Salvate il soldato Ryan questo Fury di David Ayer. Una variazione sulla guerra brutta sporca e desaturata portata al cinema da Fuller nei 70' e rilanciata da Steven Spielberg vent'anni dopo. E un remake sotto mentite spoglie del bellissimo e claustrofobico U-Boot 96 di Wolfgang Petersen, con l'abitacolo di uno Sherman a fare le veci del ventre umido di un sommergibile. Luoghi comuni in abbondanza nella scrittura dei personaggi, con la soldataglia indurita dalla guerra alle prese con la burba appena arrivata al fronte. E una sorprendente, cieca determinazione nel cancellare dall'orizzonte il nemico, che come in Black Hawk Down (o nelle scene di massa degli ultimi episodi di Il Trono di Spade…) diventa magma ostile, pura malvagità, carne da cannone nell'accezione più letterale del termine. Così, le parti migliori del film sono quelle di pura filosofia visiva, come la fulminante, brutale apertura dove la guerra è ridotta alla sua forma più astratta, o i momenti dove è sublimata in pura attesa, nel mostro incombente come un lupo alla porta. Virtuosismi umani, che sfruttano al meglio una sporca quasi mezza dozzina perfettamente in parte e fanno ben sperare per l'imminente Suicide Squad. Ecco, se proprio proprio di papà Steven mancano il seme del dubbio, la vigliaccheria, il terrore della morte che pervade allo stesso tempo vittime e carnefici. Ma Fury è un film a tesi, e la tesi è che à la guerre come à la guerre.