sabato 24 dicembre 2016

Euforia passeggera

Ancora 5 minuti, Jennifer
Mezz'ora dopo i titoli di testa di Passengers, sei lì che ti dai dei pizzicotti.
Possibile? Un blockbuster fantascientifico con un'idea.
Tutto è cominciato in medias res, su un'astronave in volo verso un pianeta lontano carica di passeggeri sotto ghiaccio. Per un guasto del computer di bordo, uno dei cinquemila baccelli di supporto vitale si è dischiuso e il passeggero ivi contenuto si è svegliato.
Solo.
Nell'immensità dello spazio.
Su un'isola deserta hi-tech lunga un chilometro.
Con la prospettiva di esaurire il suo ciclo vitale durante una trasvolata lunga un secolo.

Ce ne sarebbe abbastanza da uscire di testa, e infatti è proprio questo che succede. Perché pur tentando di darci dentro con l'intrattenimento di bordo, dopo un anno di bagordi il nostro eroe comincia ad averne piene le scuffie.
Ma ehi, ecco la soluzione: selezionare la ragazza più bella dei baccelli, manomettere la sua capsula per svegliarla, e trascorrere il resto della vita con lei nella più assoluta opulenza.

A questo punto potrebbe davvero succedere di tutto. Ipotesi horror: come in Shining, lui potrebbe perdere la trebisonda, trasformando la nave spaziale nell'Overlook Hotel. Ipotesi melò: lei potrebbe stancarsi di lui e decidere di scongelare un terzo incomodo. Ipotesi drammatica: magari lui potrebbe aver risvegliato una malata terminale destinata a spegnersi di lì a poco. Ipotesi bizarre: uno dei due potrebbe rivelarsi un'automa tipo Westworld.

A quel punto, però, il film si ricorda di essere scritto da Jon Spaiths. Sì, quello che ha scritto Prometheus, il prequel deficiente di Alien. E, orrore, si adegua. Diventando la Space Opera più scema dall'uscita di Viaggio nella Luna di George Meliés. (Che però, per lo meno, durava un quarto d'ora scarso).

Qui, invece, tutto precipita rovinosamente dal trentesimo minuto in poi e fino alle due interminabili ore che seguono, buttando nel cesso le pur credibili performance di Chris Pratt e di Jennifer Lawrence,  il design strepitoso di Guy Hendrix Dyas, i milioni della Sony/Columbia e tutto il resto. Meglio, molto meglio tornare a dormire, e non svegliarsi più per i prossimi cento anni. E sognare, forse, il film che sarebbe potuto essere e mai non sarà.


giovedì 15 dicembre 2016

Lo Star Wars che stavate cercando

El Grand Moff l'è minga un loff
Buffo, dopo quarant'anni, ritrovarsi fuori dall'ultimo episodio di Guerre Stellari con il medesimo sorriso beota in faccia. A maggior ragione considerando la mezza delusione di Episodio VII, il suo script da manuale Cencelli del fan service, il cinismo bottegaio nei confronti delle icone create da George Lucas, i suoi ammiccamenti da cash cow.
E invece, tie': a debita distanza dal centro della galassia lontana lontana, Gareth Edwards raccoglie il pizzino seminato dal leggendario responsabile degli effetti speciali ILM John Knoll, e confeziona un film (quasi) all'altezza del prototipo. Meglio: un film per chi era là quarant'anni fa. E lo fa restando fedele all'essenza della fiaba originale e dei suoi archetipi junghiani, senza indulgere in (inutili) sentimentalismi nei confronti dei personaggi, usando lo humour con parsimonia ed essenzialità, lavorando duro sul linguaggio visivo per riportare l'Impero dalla parte giusta della barricata, quella dei malvagi senza redenzione. Ed ecco lo Star Wars che stavate cercando e che in tantissimi avete lungamente atteso, rosicando di fronte ai peluche degli assaltatori imperiali o alle sneaker da conducente di AT-AT. Fulminatori rigorosamente puntati sotto la cintura, character ambigui, mai troppo rassicuranti né simpatici, cattivi nazi, battaglie campali sopra e sotto l'orizzonte. E a incombere su tutto, l'ombra di una Morte Nera minacciosa quanto nel 1977.
Ci voleva un film così, per cancellare dal palato il gusto dolciastro della premiata fabbrica di giocattoli JJ. Abrams & Co. E la Lucasfilm è riuscita nell'impresa. Questo vale molto più dei difetti del film - il 3D totalmente gratis, la regia impersonale ma serviceable, la recitazione un po' monocorde di alcuni membri del cast, la partenza da Diesel, i troppi finali. E lascia addosso la voglia di tornare nello spazio il prima possibile. Non era scontato.

giovedì 17 novembre 2016

La legge di Newt

zing-a-ding

Farà il botto, questa nuova incursione della Warner Bros. nel mondo fantastico creato da J.K. Rowling, autrice e sceneggiatrice degli Animali Fantastici di David Yates? La major americana, fiaccata dalle mazzate subite di recente con Peter Pan e Tarzan nonché dalle performance ottime ma non eccelse dell'universo cinematico DC, ci conta molto. E si vede: in fatto di caramelle oculari, il primo capitolo della saga di Newt Scamander ridimensiona i pur efficaci effetti digitali di Doctor Strange a un gioco di fumo e specchi. Sul resto, però, qualcosa da eccepire c'è. Perché come macchina da spettacolo Animali fantastici e dove trovarli è scatenata, possente, iperdettagliata, ma mai archetipica quanto quella messa in campo a suo tempo da Chris Columbus & C. con i sette capitoli di Harry Potter. Quindi, per molti versi, più fragile.
Priva delle figure junghiane del bambino forte, dell'ombra, del vegliardo, etc. la produzione si affida a una maschera che gioca tutto su un divertito candore alla Buster Keaton e su un bestiario degno dei kolossal fantascientifici più ricchi e più recenti. Emozione garantita, soprattutto nella seconda parte, ma non esente da qualche piccolo rimpianto: perché la regia molto beneducata di David Yates abbandona subito il punto di vista umanissimo dello spettatore incarnato dal non mago della compagnia, Jacob, per inseguire i sortilegi di una narrazione forzatamente interlocutoria e ça va sans dire solo foriera di cose a venire. Restano però impresse nella retina l'azione scatenata, la recitazione deliziosamente sopra le righe dei personaggi in carne e ossa e di quelli digitali, la confezione impeccabile e iper-stilizzata e l'anima delicatamente ecologista, che a ben vedere il cattivo è solo venefico smog color carbone. Un inizio discreto, e un film imperfetto, che però lascia addosso la voglia di vederne altri.

giovedì 27 ottobre 2016

Strano ma vedo

Facciamo gli scongiuri
I difetti son gli stessi di praticamente tutti i film Marvel Studios. Budget non eccezionale visibile in controluce negli effetti digitali non sempre eccelsi, fotografia plastificata, un cattivo poco motivato dalla scrittura e dall'interpretazione sottozero di Mads Mikkelsen e il canonico finale fine di mondo che ogni cinefumetto che si rispetti porta con sé. Ma una volta tanto, Doctor Strange ha anche parecchi pregi: rispetto del materiale originale, che qui balza sullo schermo nelle sequenze sotto acido rubate alle tavole di Steve Ditko e alle trame misticheggianti di Stan Lee; gentilezza nei confronti del gentile pubblico, ampiamente risarcito del prezzo del biglietto con un po' di humour e genuino sense of wonder; un cast abbastanza centrato anche nella scelta dei comprimari;  e per finire, un 3D perfettamente funzionale al ritmo vertiginoso di un racconto fitto di balzi reali e metaforici. Derrickson dirige con mano ferma e ottimo senso della suspense, ben asservito da una scrittura piuttosto credibile anche nelle sue svolte più estreme e nelle ovvie concessioni alla continuity della premiata ditta, confezionando un film realmente unico rispetto al panorama delle pellicole ispirate ai super-eroi e finalmente adatto a un pubblico familiare, con padri e figli idealmente uniti nei bagliori arcani dell'Occhio di Agamotto. Resta da vedere se il sortilegio paghi, in termini di appeal. Qui si spera di sì, e si è deciso di risparmiarsi le immancabili scene post-crediti con l'immancabile annuncio di immancabili team-up. Come diceva Veltroni, non si interrompe un'emozione.

mercoledì 26 ottobre 2016

mercoledì 12 ottobre 2016

C'era una volta il Mest

Putin on the ritz

Chi si aspettava una serie di pronta beva come Il Trono di Spade potrebbe anche non affezionarsi a questo Westworld, versione aggiornata e cupissima del terminator ante-litteram Il mondo dei robot di Michel Crichton (1973). Buone notizie, invece, per chi apprezza le provocazioni a lento rilascio, perché il nuovo blockbuster a puntate della HBO da questo punto di vista ha molto, moltissimo da offrire. Ritmi lenti, d'accordo, e suggestioni molto più dure da digerire rispetto all'azione pura dell'originale. Ma in puro stile Jonah Nolan, che qui firma l'impianto dello script e la regia del primo episodio, anche salutari provocazioni sul senso dell'esistenza, sui confini sempre più labili fra realtà e immaginazione e sui frutti velenosi di relazioni sempre più superficiali e oggettivate: perché è davvero breve la distanza fra le sevizie gratuite nei confronti dei robot e quelle terribili offerte della cronaca attuale, i Boettcher i Levato i Foffo i Prato eccetera. E sì, sono incubi dai quali bisognerebbe svegliarsi, ma intanto si vive in un tutto-e-subito che ha il sapore di una barbarie tecnologica in attesa di una rivoluzione che ha i contorni sfuocati del miraggio, e chissà se mai arriverà. Grande cast, su tutti Evan Rachel Wood, Thandie Newton ed Ed Harris, che rubano la scena stendendo lentamente i binari di una narrazione che procede a sussulti e sbuffi, sempre uguale e sempre diversa, come l'itinerario della locomotiva a vapore che fende le praterie del Mondo Western. Ma nonostante i limiti di un prodotto da fruire settimana per settimana e le piccole concessioni al mainstream, l'impressione è quella del grande cinema. Sarà pure artificiale, ma quando c'è l'intelligenza è sempre gradita. Ogni lunedì sera alle 21 su Sky Atlantic.

mercoledì 14 settembre 2016

La Cheney dei cretini



E insomma, alla fine Donnie Azoff di The Wolf of Wall Street esce di galera, ingrassa ulteriormente e mette in piedi il suo nuovo business: una bella rivendita di armi. E con questo potremmo chiudere la questione Trafficanti, visto che il nuovo film di Todd "Una notte da leoni" Phillips cerca tanto disperatamente di arrivare alle altezze siderali di Scorsese da sfruttarne all'osso tutti i manierismi, dal "segui la grana" al freeze frame alla voce fuori campo del protagonista a sottolineare gli snodi narrativi. Ma dal momento che Phillips sta a Scorsese come Boldi & De Sica a Chaplin, la lotta è impari. E sì, Trafficanti resta divertente, a tratti brillante, a tratti amaro, e quando arriva al punto cioè alla vera storia del pacco della premiata ditta Diveroli-Packouz ai danni dello zio Sam, addirittura interessante. Ma la sensazione che ti lascia addosso è quel certo non so che di già visto che boh insomma però tanto valeva chiamarlo The Wolf of Wall Street colpisce ancora. Come variazione sull'intreccio molto calvinista del far la grana disonestamente e poi pagarla, si . Bellissimo però il finale vagamente Chris Nolan: alla fine il tipo i soldi li avrà presi o no? Saperlo.

martedì 30 agosto 2016

Potrebbe piovere



Gene Wilder è tornato a far coppia con Marty Feldman. E non c'è proprio niente da ridere.

sabato 27 agosto 2016

martedì 23 agosto 2016

Cieco da vedere


Un'altra casa infestata per il Fede Alvarez già dietro il remake (gratuito) di The Evil Dead di Sam Raimi. Stavolta, però, niente spiriti dannati demoni sumeri né presenze soprannaturali: il villain ha l'occhio spento e la fisicata da squalo bianco di Stephen Lang, il generalissimo cazzuto di Avatar. Che qui è una versione pompata e feroce di Clint Eastwood in Gran Torino
Logico immaginare cosa possa succedere quando tre topi d'appartamento fighetti attirati dal miraggio di un favoloso gruzzolo irrompono nel buen retiro del cecato muscoloso in canottiera d'ordinanza: cazzi enormi per tutti. Alvarez (accento sulla prima A) tiene agilmente botta finché la faccenda resta sui binari del thriller duro e puro senza fronzoli da torture porn. Poi scatta il big twist, e il film perde un po'. Ma poco, perché 1/il character design è bello solido, e va molto oltre la media del genere, con un cattivo che per buona parte del film è puro istinto omicida perfettamente funzionale allo scopo e al plot, 2/la scrittura è essenziale efficace, spietata e 3/Alvarez ti tiene in tensione per un'ora e trentacinque minuti tiratissimi senza risparmiarsi quei due o tre virtuosismi registici che fanno sempre tanta allegria. Un giochino che funziona alla grande, fa venir voglia di vederne ancora, e mette parecchia ansia. Non male davvero, visti i tempi.

mercoledì 20 luglio 2016

Star Tre


Caliente come un traghetto Tirrenia con l'aria condizionata fuori uso, l'astronave Enterprise continua il suo viaggio là dove nessuno è mai giunto prima. Piccolì avvicendamenti nell'equipaggio: produzione sino-americana, con i soldini di Alibaba a finanziare la terza missione del nuovo/vecchio equipaggio; regia sino-australiana, con il Justin Lin di Fast & Furious sulla poltroncina che fu di JJ Abrams; cast più ricco e melting pot che mai, con una Sofia Boutella e un Idris Elba in più. Disgrazia vuole che il terzo Star Trek della nuova/vecchia serie sia una fotocopia del secondo e del primo, con un cattivo scaricato nel buco del gnao della galassia in tempi remoti e perciò deciso a prendersi la sua vendetta contro l'odiata Federazione. Messi in panchina Kurtzman e Orci, a questo giro il peso della sceneggiatura poggia sulle spalle del carneade Doug Jung e soprattutto di Simon Pegg (il nuovo/vecchio Scotty, ma anche l'autore di L'Alba dei morti dementi e Hot Fuzz), il che fa di Star Trek Beyond una specie di Action comedy in ambientazione spaziale. Ma dopo un inizio brioso il giusto, subentra un fastidioso senso di dejà vu: e si comincia a pensare con nostalgia agli episodi più estremi della vecchia/vecchia serie, con i nostri costretti ad atterrare su pianeti abitati solamente da single mozzafiato sormontate da cofane alla Amy Winehouse o indietro nel tempo nell'America della Caccia alle streghe. Roba buona per il prossimo episodio, secondo le voci di corridoio. Questo si può vedere, ci mancherebbe. Ma da qui a definirlo un must, ce ne passa.

Ediscion straordinaria



Su Rottentomatoes, aggregatore di recensioni on line, è arrivato dietro a Batman Forever di Joel Schumacher. Zack Snyder, che l'ha diretto, con questo film si è guadagnato il soprannome di Zack the Hack, che da noi suonerebbe un po' come Zack il Bidone. Gli incassi, alla fine, si sono rivelati decenti ma non eccezionali, almeno per una pellicola che vedeva di fronte per la prima volta sul grande schermo due icone dell'immaginario come Batman e Superman.
Viste le premesse, la domanda sorge spontanea: perché cacciare quasi venti euro per la Ultimate Edition di Batman v Superman, soprattutto se il consiglio arriva da chi ha apprezzato la prima versione del film, quella arrivata nelle sale e derisa per settimane da praticamente tutti i trendsetter?
Domanda lecita. Almeno quanto il giudizio a posteriori su un film che è stato massacrato innanzitutto da chi avrebbe dovuto promuoverlo: perché i trenta minuti di pellicola in più dell'edizione definitiva non cancellano i difetti del film - la gravitas, lo zero assoluto di humour, le scorciatoie narrative, le irraggiungibili ambizioni "adulte" - ma colmano le falle più macroscopiche della sceneggiatura, restituendo al film un senso tutto diverso, un Luthor più credibile che puerile, un senso sorprendentemente affine ai Batman di Chris Nolan, che nella versione uncut del blockbuster più discusso di sempre sembra aleggiare ancora come un fantasma nonostante la reductio a produttore esecutivo. 
Basterà? Per chi non ha apprezzato la magniloquenza di BvS, il suo essere costantemente e totalmente fuori scala, la sua folle presunzione da più grande spettacolo del mondo, difficilmente. La speranza è convertire gli agnostici, quelli che fin qui hanno gradito l'impaginazione impeccabile del film, le strizzate d'occhio ai vecchi "sandaloni" di Hollywood e ai dipinti rinascimentali, il Pipistrello più action di sempre. O semplicemente l'infantile gratificazione di vedere per la prima volta fianco a fianco sullo schermo il Cavaliere Oscuro e l'Uomo d'acciaio, per tacere di una certa amazzone. Se non son soddisfazioni queste, proprio non so.

lunedì 11 luglio 2016

(Segue)



La maledizione funziona così: se trombi sei morto. Non immediatamente, però, e non senza un carico di angoscia mica male, perché il ciclo collodiano fra marachella e castigo è cortocircuitato in un ralenti che è allo stesso tempo un'eco del peccato da espiare: e allora, il mostro di It Follows diventa l'attesa del castigo, un incubo cangiante che cambia continuamente aspetto seguendo però il geniale fil rouge della bedtime story. Quindi, una vecchia signora in sottoveste, un giovane alto e secco in mutande e maglietta, una signora matura in vestaglia da notte, un ragazzino in pigiama. David Robert Mitchell fa paura utilizzando i campi lunghi, roba che non si vedeva più dai primi zombie di Romero, e sfodera un horror puro, esangue ma efficacissimo, tutto giocato sulla metafora dello sguardo che vaga sull'orizzonte e sull'idea di un nemico ottuso, ossessivo, incomprensibile e inarrestabile. Un film scolastico e furbo nei rimandi visivi al Carpenter di Halloween o al Crichton di Il mondo dei robot, ma allo stesso tempo intimo, personale e terribilmente vischioso, il genere di pellicola che ti si attacca addosso e ti costringe a volerne ancora. Un buon successo in patria, dove è uscito un anno fa. Meno da noi, dove si sceglie di mandarlo al massacro a luglio e con scarsa promozione. Da vedere subito, prima che evapori al caldo dell'estate. Perché la cosa terrificante davvero sarebbe perderlo.

martedì 28 giugno 2016

Perdersoli


Il destino a volte picchia duro. Ciao Bud, e grazie di tutti i pugni.


lunedì 6 giugno 2016

Videoburrito Aiazzone





L'electrobanda Anni Settanta nella munifica interpretazione dei Bronco

sabato 4 giugno 2016

Al tappeto



Alla fine, ha vinto il Parkinson. Ma la gloria resta tutta sua. Ciao Alì, e grazie di tutti i pugni.

venerdì 20 maggio 2016

Radicale libero



Ciao Marco, vai a insegnare agli angeli come si fa uno sciopero della fame

venerdì 22 aprile 2016

Purple Rain



Vai Principe di Minneapolis, insegna agli angeli che il viola porta sfiga

Capita in America: Civil War


Insomma, alla fine se ne esce un po' così
Recensire Captain America - Civil War con lo stesso criterio con cui si recensisce la qualunque sarebbe un esercizio sterile, e in fondo inutile. Perché in realtà, il terzo Capitan America è un oggetto cinematografico che diluisce gli ottimi enzimi complottardi del precedente The Winter Soldier nella rissa permanente di Avengers - Age of Ultron, irrobustendo il cocktail con un paio di pupazzetti nuovi. Con una dozzina di main characters sulla scena, più i personaggi di contorno, spazio per una trama vera e propria non ne resta: e infatti, il film corre dietro per oltre due ore e mezza allo schizoide Bucky Barnes, ambiguo super-soldato in odore di Hydra e Kgb ontologicamente inseguito da buoni, cattivi e cattivelli di ogni ordine e grado. Chi aveva apprezzato le ambizioni "alte" dell'episodio precedente o dei fumetti di Brubaker & C. può mettersi il cuore in pace: qui si torna al format del telefilm gonfiato con gli estrogeni delle solite produzioni Marvel Studios. Il che, va detto, non è necessariamente un male, vista la conclamata vocazione seriale dei cinefumetti e la capacità dei Russo Bros. di far convivere sulla scena dodici maschioni dodici (donne comprese) dando a ognuno il giusto spazio. Ma senza il background alla Lumet del film precedente e senza un vero villain a motivare la bagarre, che l'odiato Zemo è poco più che un McGuffin, l'effetto complessivo è un po' lo stesso che si prova osservando un ragazzino giocare con le action figures che hanno prontamente invaso i centri commerciali: si parte sereni e poi, man mano che la storia perde l'abbrivio garantito dalle vaghe premesse, inevitabilmente si rischia l'indigestione di cazzotti e tongue-in-cheek. Diabolica, sempre, la capacità tutta Disney di spremere ogni oncia di succo dalle property di Casa; fra un botto e l'altro, ci si concede il lusso di pubblicizzare Star Wars sfruttando la parlantina di Spider-Man, unica autentica sorpresa del mappazzone. Di fronte a questo, c'è da levarsi il cappello. Al resto penserà il core target: tredicenni che di fronte all'allegro Marvel Massacre sembrano essersi divertiti più che di fronte alla grandeur perturbante della distinta concorrenza. Il seguito, alla prossima puntata.

lunedì 18 aprile 2016

martedì 12 aprile 2016

Spiriti animali

Seduction of the innocent
Sarebbe piaciuta al vecchio Walt questa nuova versione dei racconti del  "Jungle Book" di Rudyard Kipling? Per certi versi, senz'altro: anche una vecchia pellaccia come lui avrebbe sgranato gli occhioni di fronte al blend di immagini live-action e animazione digitale che fa di questo film un ibrido visivo degno del King Kong di Peter Jackson, l'oggetto cinematografico cui più somiglia. Difficile dire, invece, se Disney avrebbe gradito il senso generale del racconto: un coming of age che poco concede all'enfasi retorica e al sentimento, e soprattutto nelle battute finali traghetta il film in una dimensione da team-up supereroistico a due e quattro zampe. E sì, è vero, in realtà nei vari Libri delle Giungla di Kipling c'era anche e soprattutto questo, una perfetta metafora del colonialismo inglese e relativa superiorità del capitale (i "trucchi" del cucciolo d'uomo) rispetto alla legge di natura. Ed è vero anche questi non son più tempi in cui è lecito sdilinquirsi dietro ai begli occhi di una ragazzina in sari, che eventualmente quella è roba che verrà buona per il sequel, come pure che nel dilemma fra amore e guerra chi mena per primo mena du' vorte.
O forse, a pensarci bene, il segreto sta proprio in queste dissonanze fra vecchio e nuovo. Perché c'è da scommettere che di fronte a un Libro della Giungla così cazzuto ambizioso e post-moderno, ai più verrà voglia di fare il confronto con l'originale deliziosamente frivolo e beat di Wolfgang Reitherman. E lì sì che sarà vera irresistibile magia, con tanti bei Dvd e Blu-Ray e Digital Copy a rinverdire gli incassi. Perché anche quella è arte, un'arte che solo la Disney padroneggia con cotanto crudele savoir faire: alla concorrenza, solo poche briciole, lo stretto indispensabile.

domenica 3 aprile 2016

Fuori gioco



Applausi dalle gradinate per Cesare Maldini, che se n'è andato insieme al suo creatore grafico, Gallieno Ferri. Per fortuna, Teocoli resiste.

Videoburrito politicamente coretto





Julio Preciado dimostra che l'amor è proprio fou. Ma proprio da manicomio.

sabato 12 marzo 2016

Le dolenti note





Fanfare a morto per l'uomo comune eccezionale mr. Keith Emerson, Grazie per la pompa.

mercoledì 9 marzo 2016

Beat less


George Martin, leggendario produttore di tutti gli album dei Beatles meno uno, ha perso il ritmo.

lunedì 15 febbraio 2016

Zoot Zoot



La fattoria degli animali, più i poli opposti di Arma Letale, più la pucciosiità dei vecchi cast Disney a quattro zampe di Woolie Reitherman & C., però risciacquati nella scintillante tecnologia digitale del nuovo cinema animato a stelle e strisce. E sì, Kung Fu Panda 3 si annuncia come un concorrente agguerrito, a giudicare dagli incassi stellari macinati dall'esordio in territorio cinese. Ma anche questo film bestiale degli autori di alcuni fra i migliori film Disney Animation Studios degli ultimi anni, scritto con il ben percepibile zampino femminile della sceneggiatrice di Ralph Spaccatutto e Frozen, è una deliziosa sorpresa, una action comedy che per atmosfere complessive, interazioni fra i caratteri e sorprese sentimentali e dinamismo riporta con la mente alla Disney di chicche Anni 70 come Robin Hood e Le avventure di Bianca e Bernie. Come al solito, Tutto apparentemente facile nella fruizione, tutto terribilmente complicato nella realizzazione. Ma per una volta, tutto perfettamente a fuoco, senza le aspirazioni forse un po' troppo alto target di Inside Out o i luoghi comuni visivi e narrativi de Il viaggio di Arlo. A voler fare i pignoli, le strizzate d'occhio cinefile e post-pop ai maggiorenni sono un trucco abbondantemente frusto: ma rispetto ad altre occasioni, l'integrazione con la trama è più fluida e coerente, il character design più accurato e rispettoso.delle fonti, le gag più snelle efficaci e quando occorre perturbanti. E se l'istinto dice boh, pregasi seguire la ragione: la morale della favola è solida, trasversale e valida. E i furry animals potrà anche averli inventati qualcun altro, che il buon vecchio Zio Walt c'è arrivato solo nel 1928: Ma solo in Dißney sono riusciti a portare le bestie al Next Level.

sabato 13 febbraio 2016

caffè scorretto



Se n'è andato Renato Bialetti, l'omino coi baffi. Sembra facile, e invece no.

mercoledì 10 febbraio 2016

Le nouveau Closeau



Ci si chiedeva: sarà possibile, a tre lustri di distanza, replicare il gioco di prestigio messo in scena da Ben Stiller con "Zoolander", disgraziatamente arrivato in sala all'indomani del fatidico nove-slash-undici, subito scomparso e rapidamente assurto allo status di cult demenziale dopo l'approdo in home video? Ce la farà lo sceneggiatore Justin Theroux a tirar fuori dalla sua testolina irta di dreadlocks sequenze all'altezza della leggendaria sfilata a due o del ritorno di Zoolander al paesello natio? E come bissare il succo tutto satirico del primo film, i birignao, le invenzioni linguistiche, le Magnum e le Blue Steel?
Domande, domande. Ma la risposta è una sola: Zoolander 2 (meglio: N°. 2), in sala da questa settimana, il sequel che mantiene quello che promettevano i primi trailer e quindi, sostanzialmente, fa ridere. Privi dell'effetto sorpresa che sosteneva quasi in toto il primo film, Stiller e soci hanno messo da parte qualsiasi tentazione di satira sociale puntando tutto sull'action comedy, con un plot che sdogana definitivamente il buon Derek come ubermensch fighetto, una sorta di Jacques Clouseau modaiolo e totalmente impermeabile alle leggi della logica e della fisica. Al centro della storia, come da copione, c'è una nuova cospirazione ordita dal cattivo Mugatu per far fuori il titolare dell'espressione definitiva, quella capace di spazzar via il ricordo di tutte le faccette da copertina in circolazione... Che, guarda caso, è proprio il Zoolander N° 2., e più non dimandiamo. In una scala da zero a JJ Abrams, le strizzate d'occhio ai fan dell'originale valgono un buon trenta per cento, e ça va sans dire sono il ventre molle del film; a compensare provvedono i valori produttivi, decisamente superiori a quelli dell'originale, il ritmo scurrile e politicamente scorretto delle gag, la cura del dettaglio demenziale, un cast affiatato e un esercito di "guest star" sparse per il film come paillettes su una giacca di Versace. Autopromozione o satira che sia, chi se ne frega. A chi sentiva la mancanza di Derek sembrerà che il tempo si sia fermato. Per tutti gli altri, c'è sempre l'estremo nord del New Jersey: un luogo cupo, desolato, perfetto per immusonirsi in solitudine.

venerdì 5 febbraio 2016

Earth, Wind e basta



Il grande coro celeste accoglie Maurizio Bianco, fondatore degli EWF. Groovy!

martedì 19 gennaio 2016

Macho e Orso



L'avesse firmato Mel Gibson, Revenant-Il redivivo, tutti subito giù a dargli del grandguignolesco zozzone, del misogino criptochecca, del Milius de' noantri. Per fortuna, l'ha girato l'autore di tanti film magari non sempre perfettamente a registro ma comunque memorabili come Amores Perros, Babel o Birdman. E se quest'ultimo ci aveva convinto che un uomo potesse volare, Revenant-Il redivivo ci riporta giù, sulla terra, a strisciare fra neve, fango e torrenti ghiacciati, come in un cammino di penitenza schiacciato da tutte le ossessioni del regista - l'indissolubilità dei legami familiari, la condizione umana come faticosa lotta per la sopravvivenza, il sogno come rifugio e come condanna, l'ossessione per una meta irraggiungibile... Il limite del film sta nella sua ansia di essere altro e di più rispetto a quello che effettivamente è, cioè un onesto remake revisionista del revisionista Uomo bianco, va' col tuo Dio (1971), a sua volta ispirato all'odissea autentica del trapper Hugh Glass, ridotto in fin di vita da un grizzly dalle parti del 1820, mollato dai compagni e costretto a sorbirmi una interminabile traversata del deserto per riuscire a salvare la pellaccia. Al netto delle parentesi messianiche e documentaristiche, il film sarebbe bellissimo, con un incipit fulminante in quanto ad azione e brutalità e un finale rotondo, giustamente enfatico, degno del l'arco narrativo che precede. Ma le citazioni dello Jodorowsky di Santa Sangre e dal Kurosawa di Dersu Uzala e i momenti contemplativi suonano forzati, il montaggio ha sul gobbo una ventina di minuti di troppo e Tom Hardy si magna Di Caprio con il suo Fitzgerald, un personaggio che pare il fratello vigliacco e subdolo del Bill the Butcher di Gangs of New York. Ciò detto, siamo comunque di fronte a un signor film, che dovesse portarsi a casa qualche statuetta non ci sarebbe proprio niente di male, anzi.
Sarà che i franse' ci fanno la figura degli stronzi, e qualunque film in cui i franse' fanno la fig. degli stronzi è un mezzo capolavoro in automatico.

sabato 16 gennaio 2016

Il mago e l'accattone



Due mostri sacri in un giorno solo: mo' Rickman e Citti stanno proprio bene.

mercoledì 13 gennaio 2016

Dalle stelle alle Stallone



"Creed" di Ryan Googler racconta come meglio non si potrebbe la Hollywood di oggi: una macchina tirata a lucido, fisicamente imponente, perfettamente oliata e sempre pronta a menar le mani, ma allo stesso tempo debole di cuore e capace di vincere solo aggrappandosi al passato. Così, come con le Guerre Stellari di JJ Abrams, siamo nel territorio del remake/reboot fatto per chi si fosse perso le puntate precedenti per motivi anagrafici, con la immancabile, faticata scalata al cielo del giovane pugilator cortese costretto a fare i conti con un nome ingombrante, gli avversari scorretti, le donne e tutto il resto. Un esercizio di stile, con il giusto bilanciamento fra cazzotti, scene madri e vita proletaria. Ma alla settima portata della saga interpretata da uno Stallone ormai ridotto a comparsa di lusso, si sperava in qualcosa di più: non il nichilismo di Aronofsky o il crudo realismo di un David O. Russel, magari, ma una scintilla di vita purchessia, che so la deriva gaia con il secondo che si strugge a bordo ring o il picchiatore extraterrestre molto extra e poco terrestre di cui per breve tempo si favoleggiò dalle parti di Rocky IV. E invece nada, niente, nix, dritti come fusi dentro una storia che è sempre quella, ad aspettare un finale già ampiamente annunciato, a sussultare sulle poltrone malgrado tutto per l'immancabile vittoria morale, a commuoversi per un senso di inadeguatezza che somiglia molto a quella di una industria culturale dal braccino irrimediabilmente corto. A stupirsi, perfino, perché tutto, dalle performance degli attori al montaggio alla regia è così perfetto, così levigato, così consolante. "Creed", insomma, è un po' come andare a farsi prendere a cazzotti dalla nonna. Il piacere delle mazzate, senza i lividi.

martedì 5 gennaio 2016

Sapper's ready


Un saluto a un tedesco che non ha mai barato: da oggi, il mondo è un po' più disadorno. Danke, Richard.