giovedì 31 gennaio 2013

Polanquito

Vedere un bambino di sette, otto anni trotterellare via barcollando a destra e sinistra sotto il peso di un paccone di sette, otto chili di derrate alimentari non capita tutti i giorni. Succede a Polanquito, una verruca di miseria nera sulle natiche sode palestrate e depilate di Guadalajara. Qui, le vetrine di Tommy Hilfiger, le insegne minimal-chic di Starbuck's e gli scampanellii dei trenini panoramici delle Plazas sembrano lontanissimi. Qui, il panorama prevede case sbilenche, per lo più molto maltrattate, vecchie Lincoln con il logo a croce calcinato dal sole, vite da strada pasoliniane. E grazie al cielo, un po' di cooperazione. Al centro di tutto c'è un brutto edificio giallo costruito a ridosso di una piccola chiesa prefabbricata. Una volta al mese, grazie all'impegno di due onlus italiane, si prova a dare una risposta ai bisogni molto concreti di un centinaio di bambini problematici. Ragazzine gravide o con figli ancora in fasce, adolescenti semianalfabeti, ragazzini handicappati, piccoletti maltrattati, abusati o solo privi dei più elementari mezzi di sostentamento si danno appuntamento qui per portare a casa la pagnotta, farsi garantire un minimo di cure o una parvenza di istruzione.
I. ha un bel viso irregolare, con occhi grandi liquidi e cigliosi da mucca, e un corpo giunonico insaccato in una tuta da ginnastica. Mi ringrazia per essere qui, e mi dice che sta studiando da infermiera "per restituire al centro di Polanquito almeno un po' di quello che ho ricevuto". A. è grande e grosso, bello stazzato, con una faccia allegra punteggiata di brufolazzi. Gira sempre in coppia col fratello, alto uguale, ma largo la metà, mani come badili e una T-shirt dei Megadeth che fa a pugni con i capelli corti con la riga, i modi educati e la faccia da fidanzatino ideale. La settimana scorsa, I vicini di casa gli hanno ammazzato il cane. Lo racconta così, sorridendo, come un fatto inevitabile: è che da queste parti c'è un sacco di gente mala, e bisogna accettare quello che arriva. F. se ne sta in un angolo, isolato dal gruppo, a giocare da solo. Isolato lo è sul serio, perché è sordomuto. Parla con la sua danza irrequieta, con gli occhi, le mani e i piedi, e sorride spesso. Da qualche mese gira con un grosso apparecchio acustico incastonato dentro un orecchio. A regalarglielo è stato uno dei medici che una volta al mese, gratuitamente, offrono i loro servizi a una comunità che non ha i mezzi per l'assistenza sanitaria. Poi c'è L., l'amichetta di nostra figlia. Stava nello stesso internado, ma un bel giorno sua madre se l'è venuta a prendere per portarla qui, fra i grossisti di pneumatci e pezzi di ricambio, le fabbriche di vernici e le friggitorie di Tortas Ahogadas di Polanquito. Ora ha smesso di frequentare la scuola primaria e campa di aiuti alimentari, però a casa ha la cable tv, e sembra felice.
Tutti, qui, impazziscono per i dolci. Li trovano nelle piñatas a forma di stella da saccagnare di mazzate durante le posadas, o negli scatoloni da dieci chili che di tanto in tanto qualche abarroteria della zona mette a disposizione dei locali. Come i pacchi alimentari, anche le manciate di caramelle toffee dure passano di mano in mano durante l'appello: nome, cognome da parte di padre e da parte di padre, e dalle file di panche sbuca qualche sorriso imbarazzato pronto a ritirare il proprio piccolo tesoro.
A gestire il tutto è una signora alta, bionda e bianca di settantacinque anni, che dirige le operazioni con disciplina ferrea. I bambini stanno lì per due, tre ore, seduti sotto una tettoia, in attesa. Prima il dovere - cose anagrafiche, o la consegna delle pagelle, o delle lettere inviate ai ragazzi dai padrinos che li hanno adottati a distanza. Poi gli avvisi: abbiamo scoperto che alcune famiglie vendono le coperte che gli forniamo. Se dovesse ricapitare, basta coperte. Oppure: le derrate alimentari verranno consegnate solo ai bambini, non ai loro genitori. Niente bambini, niente derrate. Roba così. Poi, finalmente, al momento dell'entrega, si fa l'appello, e ogni ragazzetto si fa avanti, ti ringrazia come se veramente gli importasse, e se ne va col suo prezioso carico di olio, riso, fagioli e gallette.
E tu ti senti allo stesso tempo privilegiato per aver toccato con mano una fetta di mondo che nemmeno pensavi esistesse, crudele per non averlo mai notato, impotente di fronte a tutte le Polanquito dell'emisfero occidentale. E anche un po' paternalista. Come tutti quelli che hanno avuto il culo di venire al mondo dalla parte giusta della barricata. E che qui, nelle recite di Natale, si beccano sempre le parti migliori.

martedì 29 gennaio 2013

Aquile e bigoli

Nuova e ultima stagione di "Spartacus", il serial che sta al film di Stanley Kubrick come l'Uomo Ragno di McFarlane a quello di Steve Ditko. Siccome che nella ultima season erano morti praticamente tutti i villain, si ricomincia da un nuovo cattivo, Crasso, che ovviamente è marcio e corrotto quanto Glabro etc., ma più tonico e fascista zen, praticamente un Mishima de' noantri.
La tragica fine di tutto il parco mignotte della Casa di Battiato impone un nuovo corso a questa saga de suore e de mena': dalla misoginia delle serie precedenti (che delle donne non bisogna fidarsi, MAI) qui si scivola direttamente e n.b. senza vasellina nel ricchioncellismo militante. Non a caso, l'unica mujer del gruppo, la fidanza di Crisso, sta lì solo ad ammazzare i romanacci, e per il resto son solo tartarughe maschili, bicipiti maschili, barbe e capelli maschili e daghe e aquile romane molto falliche che si infilano un po' dove capita capita, biricchine, e grandi dichiarazioni molto virili di omnia vincit amor.
Noi che di storia ne sappiamo a pacchi siamo ben consci del fatto che alla fine di questo terzo capitolo più prequel la premìata palestra Spartacus & C. verrà chiusa d'imperio (romano): non resta che sperare nella bella morte. Ma il duellone totale globale che profilasi all'orizzonte corrusco del green screen, quello fra Spartacus il biondo e Crassus l'oscuro, promette squisitezze culattoniche a non finire.
La versione in onda su Moviecity Premiere è direttamente quella uncut, con gli sbocchi di sangue, le tette i pingoni e le altre cose belle della vita. Alle latitudini latine l'è lieto il latinorum.

sabato 26 gennaio 2013

Blowing in the wind

"È come il movimento occupy, solo più puzzolente", dichiara, impavido, Punk Sanderson, creatore di "Fart for Your Rights". E bisogna ammettere che una protesta a suon di scorregge non può che far rumore, soprattutto se condotta con una campagna virale che prevede un puzzolente video su YouTube, e addirittura una applicazione per iPhone, scaricabile - e scaricatissima: diecimila dollari in pochi giorni, perché pecunia non olet - da iTunes. Il succo della protesta: sensibilizzare l'opinione pubblica contro le malefatte delle case discografiche, che "Danno la caccia ai ragazzini per il download illegale, ma poi negano agli artisti le giuste percentuali sull'utilizzo della loro musica, trincerandosi dietro cause legali troppo costose da affrontare". La rivoluzione non russa, insomma, ma rumoreggia comunque. Un'idea geniale, che bisognerebbe esportare sotto Monte Citorio, o ovunque alligni l'ingiustizia. Pròt.

venerdì 25 gennaio 2013

Mi ricordo Toyah Wilcox

Quella che cantava "I Want to Be Free".
E che poi si è sposata con Robert Fripp.
Ventisei anni fa.

mercoledì 23 gennaio 2013

Tu chiamalo se vuoi El Bebeto

"Beato te che te ne vai al Messico", scherzavano amici e conoscenti. Ah, il sole, la cerveza, i tacos, la tequila, e le piramidi Maya, e le sfumature verdonzole-barra-turchesi del Mar dei Caraibi.
Bene, giunto al giorno settantacinque di permanenza nel ridente stato di Jalisco, puoi asserirlo con cognizione di causa: da qui, il Mar dei Caraibi non si vede neanche col binocolo. Ma nemmeno la luce in fondo al tunnel. La costituenda fam. Voglino ha passato brillantemente i primi due gradi di giudizio, quello federale e quello tapatio. Ma giunta all'ultimo miglio, la macchina della giustizia si è trasformata in un tritacarne. Riassunto degli ultimi eventi a uso e consumo di chi stesse pensando che in fondo l'adozione internazionale è una specie di vacanza pagata.

- Metti che nel tuo Paese di adozione, nel senso della Nazione che hai scelto, l'Adozione sia una questione controversa, cogli sporchi gringos che i cinni se li comprano su Internette e i cattivi delle leggende urbane che li vendono a tranci su eBay. Metti che ti capiti un giudice di fresca nomina. Metti che il suddetto, all'idea di sottoscrivere una sentenza di adozione internazionale, paventi possibili strumentalizzazioni politiche. Metti che diventi maledettamente scrupoloso. E cominci a spulciare le tue trenta e rotti cartelline di documentazione alla ricerca di un refuso, un vizio di forma, un qualsiasi appiglio per Ponziopilarti un po'. Metti che lo trovi. Che cosa può fare? Tanto per cominciare, può sollecitare un supplemento di indagine, e prendere tempo.

- A quel punto, ricordi sommessamente all'avvocato assunto in loco di non essere un membro dello stesso club di Madonna, Brangelina o altri genitori adottiVip, e di avere un impiego abbastanza normale da cui hai preso un periodo di aspettativa non retribuita che temi di aver già abbondantemente sforato. Dalle tue parti, ricordi all'avv. mex.. questa si chiama giusta causa, e potrebbe costarti il posto. L'avv. sorride, paterno, e fa spallucce. Cazzi tuoi. I "massimo tre mesi" prospettati a suo tempo erano una tempistica indicativa. Se hai problemi di lavoro puoi sempre smollare qui moglie e figlia, cavalcare verso il tramonto e tornare a prenderle con comodo in un altro momento. Perché l'adozione non è scienza, ma fantasia, e gli imprevisti sono più che nel Monopoli.

- Postilla: mentre tu spendi e spandi in affitti messichi, alimenti messichi, telefonate a cellulari messichi, fotocopie messiche, taxi messichi, etc., il tuo conto in banca, al contrario di quelli di Madonna o Brangelina, si svuota più in fretta di un comizio di Nichi Vendola nel Varesotto. Questo, unitamente alle notizie sulle pagine economiche dei principali quotidiani italiani on line, non favorisce il buonumore. A bordo piscina, sotto il sole caliente dell'equatore, risulti il quarantenne con la smorfia più amara. Per fortuna, i Ray-Ban scuri occultano le lacrime. Però, non puoi fare a meno di notare che cominci a somigliare sinistramente ad Augusto Pinochet subito dopo la presa del Palacio De La Moneda.

- Nel frattempo, in Itaglia, le famiglie d'origine ci mettono del loro, e allertano la NATO, la Farnesina, il mago Demus, "Chi l'ha visto?" e la Madonna di Cerignola. Il tutto, in totale spregio di un basilare principio di realtà: quello secondo cui in un Paese straniero la legge italiana non. Gode. Di. Alcuna. giurisdizione. Quindi, cari cugini, zii, suoceri, amici vicini e lontani, è inutile che ci diciate che lo zio del nonno della sorella del prozio di secondo grado del parrucchiere sotto casa è un esperto di diritto internazionale, e non vede l'ora di chiamare l'ambasciata per fargli vedere chi siamo. Chiamasse una hot line porna, piuttosto. Godrebbe senz'altro di maggiori soddisfazioni e non rischierebbe di procurarci altri casini.

- a questo punto, uno normale finirebbe per somatizzare. E infatti, somatizzi. Una mattina ti svegli con la parte destra della faccia gonfia come un pallone. Il giorno dopo e per i tre giorni seguenti, emicrania a stecca. Poi, per non farti mancare proprio nulla, riesci a beccarti un discreto raffreddore. Ti rivolgi alla farmacia più vicina. Quando riesci a trovare il banco dei medicinali, visto che qui le farmacie sono grosse come ipermercati e vendono anche refrescos, giocattoli, biancheria intima, sigarette e un sacco di altre cose, scopri che le confezioni non prevedono il bugiardino, ma solo la lista degli ingredienti. Non disponendo di una laurea in medicina, opti per una pomata contro le emorroidi tanto per non tornare a mani vuote e ti ripresenti alla tua suite. Tua moglie, poraccia, sta messa quasi come te, con in più quei dubbi tipicamente femminili sul senso più intimo e profondo della maternità nella misura in cui a prescindere dal discorso cioè cazzo compagni. Mentre ti lavi i denti con la Preparazione H, senti che in fondo il Jack Torrance di "Shining" potrebbe essere un ottimo role model.

- Scopri con orrore che tu e il frutto dei lombi altrui che però, dai, giudici permettendo adesso in fondo è quasi tuo, non condividete lo stesso concetto di "guapo": tu pensi a Johnny Depp, Di Caprio, etc., lei all'artista precedentemente noto come El Bebeto (foto), praticamente la versione india bistrata e copyright-infringed di Jake Gyllenhall ne "La montagna dei rottinculo". Torni a indossare i Ray-Ban, e provi freneticamente la faccia alla Pinochet davanti allo specchio: per perfezionarla hai tempo ancora un paio d'anni, fino all'adolescenza.

(Continua...)



lunedì 21 gennaio 2013

Zitti, zitti, ritorna Jacovitti

Jacovitti. Chi era costui? Qualche riga in più su Nuvoletta Rossa, alter-ego tutto fumetto di questo blog sul sito ufficiale de il manifesto. E l'occasione per parlarne è ghiotta: all'Ara Pacis di Roma è cominciata la mostra dedicata al Maestro di Termoli e alle sue mattane, un appuntamento con il sorriso e il tratteggio fitto fitto del bostro in mostra fino al 18 febbraio. Soddisfazione garantita.

venerdì 18 gennaio 2013

Sick Com

Conrad Bain se n'è gghiuto definitivamente on air con la sua bella faccia da papone bravo e comprensivo. Ci lascia a 89 anni: non male, per un membro del cast di "Diff'rent Strokes". Baci a Dana, e una franca e virile stretta di mano a Gary. Applauso, rigorosamente registrato.

Il carretto passava e quell'uomo gridava

Gelati mexican style. Un mondo a parte, in un Paese in cui il gelato vien buono anche l'inverno, perché alle nostre latitudini il tempo è clemente, e mastella di brutto. Coni e paletas, entonces, vanno sempre via come il pane. Zompiamo a pie' pari la robaccia della Unilever, che qui sfoggia lo stesso cuore stilizzato della Algida, solo con un nome diverso, Holanda (del resto, noi buongustai italiani, dell'Holanda, in altre ere apprezzammo altri e più aromatici cioccolati, e per il resto butteremmo a mare tutto tranne forse qualche birra, Edgar Davids e lo stato sociale. Ma non divaghiamo).
In Messico, ad andare per la maggiore è una via di mezzo fra il gelato industriale e quello artigianale: gli ingredienti si comprano in franchising, e son gli stessi per tutti. Poi, si va giù duro con le customizzazioni.
Cioè. Tu ti presenti tipo da La Michoacana, che è la catena più diffusa del Paese, e ti compri un cono un ghiacciolo o un sorbetto sencillo, ovvero normale, a un prezzo base. Poi, volendo, arricchisci con gli optional: il puccio nel cioccolato o nella marmellata, la panatura di smarties, noccioline tostate o biscotto, i trucioli di cocco o quello che ti suggerisce l'estro del momento. Gusti davvero per tutti, da quelli classici come cioccolato, fragola e vaniglia, a quelli tiki come ananas o banana, fino a quelli estremi, come mango e chile habanero, piccante di bestia.
O il preferito di mia figlia: il ghiacciolo al cetriolo con ripassata di salsa agrodolce al lime e crosta al peperoncino dolce. Giuro che è commestibile. Quasi, dài.

giovedì 17 gennaio 2013

Mystèro non buffo

Ma com'è che le persone più stronze che conosco e anche quelle che non conosco stanno tutte benissimo? La Morales della favola proprio non torna. Grazie di tutto, Paolo.


lunedì 14 gennaio 2013

Plastic Mexico

Una confezione di fiocchi di granturco da 620 grammi, lunga larga e profonda quanto una valigetta 24 ore. Un mattone di burro spalmabile da 600 grammi. Un flacone di detersivo da 7 litri con tanto di rubinetto, che altrimenti riempire il misurino è come versarsi un bicchiere di vino direttamente dalla botte. Bottiglie di Tequila da 5 litri e petti di tacchino da 5 chili. Vaschette di gelato da un gallone. E le marche: da quelle global come Zara e Benetton, a quelle locali come Scappino e Ozone, dal casual di Sportenis all'impossibile accoppiata fra gelati e patate fritte di Dany Yo. Chi vive nella beata convinzione che il Messico sia quello dignitosamente povero, ruvido e dolente dipinto da Winslow, Jannacci o Leone dovrebbe venire a schiarirsi le idee in una delle tante Plazas che costituiscono l'unica autentica attrazione di Guadalajara. Come nel sogno americano al piano di sopra, nella Plaza tipo lo struscio è metodico, il brusio ipnotico, il consumo bulimico, puro Koyaanisqatsi. E pazienza se i Macjobs abbondano e gli stipendi medi oscillano fra un terzo e un quarto di quelli italiani, fra i più depressini d'Europa. Se non hai soldi, puoi pagare tutto, anche le scarpe, in sei comode rate mensili. Già, ma per tenere aperto uno shopping mall al cui confronto i nostri iper sembrano negozietti etnici, i consumi devono girare in proporzione. Qui, solo la bolletta della luce se la gioca con quella di una piccola città. E chi ha i mezzi per riempire questi mostri, sette giorni su sette, dalle dieci di mattina alle dieci di sera? L'hinterland, mi dicono. Come Milano, Guadalajara è città di commercio, con gli abitanti di Buguggiatepec, Bustotitlan, Cinisellobalsamohuac e limitrofe che, le tasche farcite di dollari accumulati nei campi o nelle officine, tutti i giorni calano sul centro stoico come lucuste. Dieci milioni di anime spendaccione, affamate, disposte a tutto pur di somigliare almeno un po' agli americani veri, quelli che fino a ieri stavano meglio, e oggi un po' meno. E forse, sotto sotto, il punto sta proprio qui: forse, in ogni scontrino, in ogni sacchetto, in ogni camioneta stracarica che vedo entrare o uscire dai parcheggi, ci deve essere anche il piacere della rivalsa. E quello non ha prezzo.

sabato 12 gennaio 2013

Melutto

Bei tempi, quelli in cui le bottane erano solo socialdemocratiche. Ciao Mariangela, e grazie di tutto. A parte "Flash Gordon".

venerdì 11 gennaio 2013

The Road (maccartismi messicani)

In Messico, i mezzi pubblici li chiamano "camion". Con l'accento sulla "o", ma sempre "camion".
Capacità limitata, intorno alla quarantina di passeggeri. Motori Mercedes con velocità regolata dalla computadora, ma non si sa intorno a quale limite, vista la media sugli ottanta all'ora. Tutti gli optional kitsch previsti dagli stereotipi sui messicani, dai pomelli del cambio a palla otto ai copri-retrovisore in finto cincillà, una sciccheria.
Si sale davanti, si scende da dietro. Il biglietto costa sei pesos, più o meno trenta centesimi di euro a cranio. Da pagare direttamente all'autista, che mentre guida dà i resti, telefona, fuma, magna churritos, controlla l'olio, legge il giornale, fa il sudoku. Abbonamenti, zerella, al massimo sconti pensionati che funzionano a coupon.
Fermate e percorsi sono a discrezione del piloto. Un po' perché qui il trasporto pubblico è privato, e conteso fra tre-quattro cooperative di tagliagole che pur di tirar su un pendolare in più ammazzerebbero la mamma. Un po' per un retaggio dei bei tempi andati, quando per rimediare un passaggio su un pesero bastava posizionarsi a un angolo di strada e tirar su il ditino. Una abitudine dura a morire, che fa a pugni con le paline e le pensiline abbandonate per la città come vecchie battone demoralizzate. L'elasticità dei percorsi e delle fermate, ovviamente, va tutta a danno dell'utenza. Chiedere informazioni al conducente sul percorso prima di salire non ha senso, perché tanto pur di staccare un biglietto in più sarebbe capace di dirti che ferma anche sotto casa tua a Milano, il che comporta clamorosi errori di rotta e relative scarpinate. Poi, a volte i bus vanno ma non tornano, o tornano seguendo altri percorsi.
Il codice della strada dello stato di Jalisco non prevede i pedoni, né l'uso della freccia, che qui è ridotta a puro orpello ornamentale, quattro luci di posizione perennemente accese che con i loro bei bagliori ambrati fanno pendant coi neon blu sotto le auto. Mi spiegano che da queste parti la precedenza non esiste, la regola è che chi ciocca contro un altro mezzo ha sempre torto e paga pegno: questo potrebbe spiegare lo stile di guida stile 24 ore di Indianapolis, con le camionetas grandi come monolocali che ti tagliano la strada da destra o sinistra, in curva, agli incroci, nella meraviglia del suono stereofonico ranchero mixato allo stridio di pneumatici e lamiere. (va be', per l'on the road ripassiamo un'altra volta).
Gli autisti di Guadalajara son gente informata. Ieri sera, di ritorno da una gita fuori porta a bordo del 51 C, il piloto mi chiede da dove veniamo. "Italia", gli dico. E lui: "Aaah, Itttalia... Mucha crisis para allà. Mejor aquì". E poi, con una strizzata d'occhio: "Berlusconi presidente. Las muchachas...".
Sono sceso, come terrorizzato dal presagio di un brujo.
Il cartello più vicino indicava Nogales.

giovedì 10 gennaio 2013

Gente che se non c'era era peggio: David Bowie

Mai avuto una gran passionaccia per il Duca bianco, troppo algido e pieno di sé per i miei gusti, troppo fighetto, troppo Berlinese. Però a standard art-rock strappacore come "Space Oddity" o "Ashes to Ashes", per non parlare di vacanzine intelligenti come "let's dance", proprio non si riesce a dir di no. E allora fa piacere rivedere un Bowie stagionato in botti di rovere dallo storico producer Tony Visconti ripresentarsi al pubblico con "Where Are We Now", un pezzullo che ha il gusto scarno e un po' fané delle sue gite berlinesi, tutto in levare e capace di arrivare dritto al corazon in tre accordi: dieci anni di silenzio non sono passati invano. Video essenziale con colpo di coda finale diretto da Tony Oursler, videomaker sui generis che qui piace molto. E un retropensiero: è il papà di Duncan Jones. Santo subito.

mercoledì 9 gennaio 2013

Eppur si muove

Grandi novità diabolike per il gennaio 2013.
Un titolo che è un imperativo categorico: "Tu ucciderai Eva". Sottotitolo: non ci sono cazzi.
Una sceneggiatura di Diego Cajelli, che sta riuscendo a farmi diventare quasi simpatico un personaggio che ho sempre trovato un po' meh.
Un nuovo disegnatore, Matteo Buffagni, che ha dalla sua un bel piglio precisino, come da tradizione, ma guizzante, scattoso, dinamico: tutta roba di cui il Re del terrore ha un gran bisogno, vista l'attitudine alla fuga.
Insomma, ce n'è abbastanza per andare in edicola.

martedì 8 gennaio 2013

Animazioni

Due notizie, piccole piccole, a proposito di l'animazione. Un mondo che personalmente non ho mai bazzicato granché e che ultimamente, anche per motivi squisitamente professionali, mi sta dando qualche salutare scossetta al sistema nervoso. La comunicazione di servizio riguarda Bill Plympton, il papà del premiatissimo "Guard Dog". Che ha appena avviato una campagna su Kickstarter per finanziare il suo prossimo film indipendente, tutto acquerellato e acquerelloso. Per fare un'offerta c'è tempo fino al 26 gennaio - e non sarebbe una cattiva idea. La scoperta, invece, è Sofia Carrillo, directora di cui non sapevo nulla fino all'altra sera, quando ci ho sbattuto contro facendo zapping fra le Tv locali di Guadalajara. "Fuera de control", il piccolo grande horror in stop-motion da cui proviene il fotogramma qui sotto, dimostra che Guillermo del Toro non è l'unico visionario messicano in circolazione. Pinzillacchere da approfondire, in tutti e due i casi: per referenze, c'è Youtube.

lunedì 7 gennaio 2013

Mi ricordo Drupi

Il Liga deteinato della Pippobbaudo Marvel Age of nonsoccosa.
Ancora in attività, ma sotto quota Sanremo: vedi il sito ufficiale Drupi.it.
Piace a Ticci.

sabato 5 gennaio 2013

Nel ranger dei cieli

Quando uno ha un nome tipo proconsole romano, resta comunque immortale. Ciao Decio, e salutaci chi sai tu.

venerdì 4 gennaio 2013

Jicama!

Nome scientifico: Pachyrhizus erosus.
Nome comune: patata messicana.
Nome de noantri: 'O rapanellone.
Trattasi di un tubero grosso più o meno come un pugno, dalla consistenza vagamente contundente. Pelarlo come si fa con le patate, proprio no: meglio limitarsi a scalzare la scorza dal picciolo con un coltello ben affilato, e tirarla via a striscioline, un po' come con i gambi di carciofo.
La polpa è bianca latte, duretta e granulosa come quella di una pera acerba, e ha un gusto terroso, proprio come il rapanello. Solo che è bella dolcina.
Una volta sbiottato, il jicama va tagliato in cubetti e degustato bello fresco. Vien buono solo soletto con un po' di Chile dulce, o dentro una macedonia. È un tipetto resistente: quello nella foto è rimasto in frigo per una settimana senza fare neanche un plisset. Buonissimo.
Ora che sappiamo tutto del jicama, non resta che una domanda: al ritorno in Italia, ormai definitivamente scimmiato con 'ste robe messiche, dove cazzo lo vado a pigliare? Ah, saperlo.
(per la foto del jicama pronto all'uso, c'è Twitter: @AVSL1965. Buen provecho.)

giovedì 3 gennaio 2013

Un tigre nel motore

La sceneggiatura,con tutti quei flashback e quelle voci fuori campo, è didascalica fino alla pedanteria. E poi, il tono: troppi birignao per un film drammatico, troppe lacrime per una commedia avventurosa, troppe domande per una pellicola per ragazzi, troppi leziosismi per un film a tutto testosterone. A parte queste pippe cinebrivido, però, "Life of Pi" funziona: per la essenzialità molto hemingwayana del plot tratto dal romanzo di Yann Martell. Per un paio di digressioni non banali sul divino. E per quella manciata di sequenze alla marinara che scongelano i peli ascellari ormai intirizziti dal gelido inverno, brrr. Per fare un salaam felino che si rispetti, ci vuole altro. Ma Esso, il tigre nel motore, ci ha sempre il suo bel perché.

mercoledì 2 gennaio 2013

U FU

E immediatamente dopo il decesso, Gerry Anderson si è ritrovato lassù, circonfuso di cherubini tutti pettinati come Ed Bishop. Era il minimo.

martedì 1 gennaio 2013

Buoni propositi

Diventare un bravo papà restando un bravo marito. Sembra un equilibrio scontato, ma non lo è: la paternità, come dicono, modifica tutte le leggi fisiche geometriche matematiche della vita. E quando uno più uno comincia a fare tre, tutto, ma proprio tutto diventa relativo.

Esercitarsi nella comida mexicana. Preso atto che un taco e un taco dorado son due mondi diversi, apprezzati il queso adobero e il queso cotija, scoperta la sottile differenza fra il chile de arbol, il jalapeno e l'habanero, assaporati il jicama e la guayaba, che altro fare se non continuare su questa strada? Ormai la mutazione è in atto, inutile resistere.

Crescere. O imparare a decrescere, che a questo punto è lo stesso. Inventarsi tempi e modi di lavoro nuovi, perché quelli vecchi they are a-changing, piaccia o meno. Imparare a non avere paura di osare. Imparare a far quadrare i conti, sempre e comunque. Non sono più tempi da anime candide. (Ma questo, da un bel po' di tempo a questa parte, me lo ripeto tutti gli anni).

Continuare a fare fumetti. E qui ci fermiamo, perché la scaramanzia non guasta mai.

Votare. Non dico votare bene, che ormai in quel senso Boh. Dico farsi violenza e accompagnarsi al seggio a calci nel sedere. Colà giunti, trovare la forza di tracciare una croce sulla scheda elettorale. Servirà? Boh. In caso di emergenza, tener presente che trattasi di un diritto, ma anche di un dovere.

Riscoprire l'Italia. Dopo tre mesi in una città in cui gli shopping mall sono considerati attrazioni turistiche, con tanto di trenini panoramici e scorci privilegiati per le foto, non dubito di tornare a guardare sotto una nuova luce anche el dòmm la galeria e i navigli. Però ho pure voglia di Sardegna. Di Piemonte. Di Toscana. Di Umbria. D'altronde, alla creatura bisognerà pur mostrare qualcos'altro oltre al dòmm la galeria e i navigli.

Accettare serenamente i primi (secondi) capelli bianchi. I primi (primi) sono già agli atti da un paio d'anni. Ora la mia fabbrichetta di perossido di idrogeno sta entrando a pieno regime, e quindi, voilà, capelli d'argento a iosa. Ma finché i miei ottimi geni mi permettono di dimostrare qualche lustro in meno, fa niente.

Leggere qualche buon libro. L'anno passato è trascorso senza lasciare tracce apprezzabili, a parte forse "la ballata del re di denari" di Yuri Herrera e "The Barbary Coast" di Herbert Asbury. Deludentissimo, ma me lo aspettavo, l'ultimo Winslow, di cui però devo recuperare "la lingua del fuoco". In fatto di fumetti, mi vengono in mente l'ultimo "John Doe", il Salgarone di Bacilieri e la deliziosa operina dark della Ghermandi. Di americano, solo ristampe.

Corollario: rileggersi tutto Andrea Pazienza, che sta lì a prender polvere da troppo, troppo tempo.

Tornare a innamorarmi dei pochi amici veri affidati agli almanacchi, coltivando meglio rapporti che la distanza geografica e mentale ha un po' sfilacciato. Annaffiare un paio di piantine che son lì, ma insomma, anche se il terreno sembra buono faticano un po', e non si capisce bene perché. O forse sì.

Imparare a scrivere meglio. Non stancarsi di scavare. Non smettere di cercare di tenere in equilbrio occhi, cervello e frattaglie varie. Non smarrire l'ossessione. Non perdere, mai, la sincerità.

Ricordarsi di sorridere di più, che qualche ragione per farlo c'è sempre. Feliz 2013.