giovedì 31 gennaio 2013

Polanquito

Vedere un bambino di sette, otto anni trotterellare via barcollando a destra e sinistra sotto il peso di un paccone di sette, otto chili di derrate alimentari non capita tutti i giorni. Succede a Polanquito, una verruca di miseria nera sulle natiche sode palestrate e depilate di Guadalajara. Qui, le vetrine di Tommy Hilfiger, le insegne minimal-chic di Starbuck's e gli scampanellii dei trenini panoramici delle Plazas sembrano lontanissimi. Qui, il panorama prevede case sbilenche, per lo più molto maltrattate, vecchie Lincoln con il logo a croce calcinato dal sole, vite da strada pasoliniane. E grazie al cielo, un po' di cooperazione. Al centro di tutto c'è un brutto edificio giallo costruito a ridosso di una piccola chiesa prefabbricata. Una volta al mese, grazie all'impegno di due onlus italiane, si prova a dare una risposta ai bisogni molto concreti di un centinaio di bambini problematici. Ragazzine gravide o con figli ancora in fasce, adolescenti semianalfabeti, ragazzini handicappati, piccoletti maltrattati, abusati o solo privi dei più elementari mezzi di sostentamento si danno appuntamento qui per portare a casa la pagnotta, farsi garantire un minimo di cure o una parvenza di istruzione.
I. ha un bel viso irregolare, con occhi grandi liquidi e cigliosi da mucca, e un corpo giunonico insaccato in una tuta da ginnastica. Mi ringrazia per essere qui, e mi dice che sta studiando da infermiera "per restituire al centro di Polanquito almeno un po' di quello che ho ricevuto". A. è grande e grosso, bello stazzato, con una faccia allegra punteggiata di brufolazzi. Gira sempre in coppia col fratello, alto uguale, ma largo la metà, mani come badili e una T-shirt dei Megadeth che fa a pugni con i capelli corti con la riga, i modi educati e la faccia da fidanzatino ideale. La settimana scorsa, I vicini di casa gli hanno ammazzato il cane. Lo racconta così, sorridendo, come un fatto inevitabile: è che da queste parti c'è un sacco di gente mala, e bisogna accettare quello che arriva. F. se ne sta in un angolo, isolato dal gruppo, a giocare da solo. Isolato lo è sul serio, perché è sordomuto. Parla con la sua danza irrequieta, con gli occhi, le mani e i piedi, e sorride spesso. Da qualche mese gira con un grosso apparecchio acustico incastonato dentro un orecchio. A regalarglielo è stato uno dei medici che una volta al mese, gratuitamente, offrono i loro servizi a una comunità che non ha i mezzi per l'assistenza sanitaria. Poi c'è L., l'amichetta di nostra figlia. Stava nello stesso internado, ma un bel giorno sua madre se l'è venuta a prendere per portarla qui, fra i grossisti di pneumatci e pezzi di ricambio, le fabbriche di vernici e le friggitorie di Tortas Ahogadas di Polanquito. Ora ha smesso di frequentare la scuola primaria e campa di aiuti alimentari, però a casa ha la cable tv, e sembra felice.
Tutti, qui, impazziscono per i dolci. Li trovano nelle piñatas a forma di stella da saccagnare di mazzate durante le posadas, o negli scatoloni da dieci chili che di tanto in tanto qualche abarroteria della zona mette a disposizione dei locali. Come i pacchi alimentari, anche le manciate di caramelle toffee dure passano di mano in mano durante l'appello: nome, cognome da parte di padre e da parte di padre, e dalle file di panche sbuca qualche sorriso imbarazzato pronto a ritirare il proprio piccolo tesoro.
A gestire il tutto è una signora alta, bionda e bianca di settantacinque anni, che dirige le operazioni con disciplina ferrea. I bambini stanno lì per due, tre ore, seduti sotto una tettoia, in attesa. Prima il dovere - cose anagrafiche, o la consegna delle pagelle, o delle lettere inviate ai ragazzi dai padrinos che li hanno adottati a distanza. Poi gli avvisi: abbiamo scoperto che alcune famiglie vendono le coperte che gli forniamo. Se dovesse ricapitare, basta coperte. Oppure: le derrate alimentari verranno consegnate solo ai bambini, non ai loro genitori. Niente bambini, niente derrate. Roba così. Poi, finalmente, al momento dell'entrega, si fa l'appello, e ogni ragazzetto si fa avanti, ti ringrazia come se veramente gli importasse, e se ne va col suo prezioso carico di olio, riso, fagioli e gallette.
E tu ti senti allo stesso tempo privilegiato per aver toccato con mano una fetta di mondo che nemmeno pensavi esistesse, crudele per non averlo mai notato, impotente di fronte a tutte le Polanquito dell'emisfero occidentale. E anche un po' paternalista. Come tutti quelli che hanno avuto il culo di venire al mondo dalla parte giusta della barricata. E che qui, nelle recite di Natale, si beccano sempre le parti migliori.

Nessun commento: