La convocazione per la proposta di adozione era per venerdì. Io ed Elena ci presentiamo puntuali, lo stomaco grande e pesante come un bullone d'acciaio e la testa come dopo un paio di canne. Il bambino che l'ente ci propone sta nello stato di Jalisco. Ha dieci anni. Aveva un fratello più piccolo, che è stato adottato da una famiglia messicana.
Lui no.
È che ha bisogno di un piccolo intervento. Una ciste aracnoidea sulla regione temporale del cranio. Un problema fastidioso, ma relativamente poco importante, a quanto pare dalla cartella clinica. Completano il quadro un deficit d'attenzione e di coordinazione dei movimenti cui però non diamo troppo peso, perché sono sintomi tipici di tutti i bambini istituzionalizzati. Io e la Ele ci concediamo una carezza furtiva. Dài, che forse è fatta. La responsabile dell'ente ci chiede di rifletterci durante il week-end.
Il tragitto verso casa se ne va fra telefonate ad amici e parenti e pensieri sconnessi. Siamo esausti. Dopo tanta attesa, possibile che tutto succeda tanto in fretta? Non riusciamo a crederci.
Sabato mattina, dopo una notte passata a rigirarci nel letto, di fronte a una delle rare colazioni rilassate che ci concediamo quando ne abbiamo l'opportunità, proviamo a disegnare nell'aria la vita insieme con un bambino di dieci anni.
È un quadro incasinato, indecifrabile, con una cornice bella pesante. Un quadro che per certi versi fa paura e con tutte quelle ferite e quegli strappi e quelle lacrime e quei colori violenti e quei pezzi di vita difficile sembra uscito dal pennello di Frida Kahlo.
Però quel quadro lì ci sembra proprio il nostro.
A cambiare tutto è la telefonata fatta per precauzione a una amica neurologa per capire come intervenire in un caso di ciste aracnoidea.
Ci dice che si chiama ciste, ma in realtà è altro che una ciste.
è una specie di ernia cerebrale. Liquido che si è concentrato in un punto della scatola cranica, e preme sul cervello. Sulla carta, è operabile, ma presenta grossi rischi di complicanze. E il rischio, se accettiamo, è quello di ritrovarci a dover correre da un'ospedale all'altro, accompagnando questo bambino nel suo piccolo calvario fin quando potremo.
Non abbiamo le risorse per reggere una situazione del genere. Non abbiamo i soldi e nemmeno il tempo, perché siamo costretti a lavorare entrambi per vivere. E non abbiamo neanche le palle, perché pensiamo egoisticamente di volere un bambino, non una via crucis. E non abbiamo coraggio, perché abbiamo paura.
Stamattina ho affidato la mia risposta all'ente. Pensavo di telefonare, ma oppresso dalla vergogna ho optato per una mail breve ma molto chiara esauriente e circostanziata spiegando che io e mia moglie non ci sentiamo all'altezza di un caso tanto difficile e che però siamo disponibili a procedere nel percorso e bla bla bla.
È la prima volta in vita mia che rifiuto un bambino che ha bisogno di una famiglia, e mi sento di merda. Ma di merda davvero.
E Frida, da un angolo del mio cervello, mi scruta con quei suoi occhi belli e terribili e sorride appena. Vai a capire perché.
martedì 28 febbraio 2012
Tutti da Frida il sabato sera
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3 commenti:
"Dai, che forse è fatta"...
l'attesa a volte fa perdere la testa; nel frastuono delle emozioni, voi avete avuto il sangue freddo di guardarvi dentro e dirvi la vostra verità senza ipocrisia.
Peccato invece per quel bimbo: avrebbe avuto dei genitori eccezionali!
In boca al lupo e che presto un bimbo abbia la gioia di chiamarvi mamma e papà.
Frida sorride perché avete riflettuto, di questi tempi è merce rara! Un abbraccione a te ed Elena
"Vogliamo un bambino, non un calvario".
Sono le parole di qualsiasi genitore. E sono il motivo per cui si fanno le analisi prenatali. Se poi la sfiga viene, per carità, si china il crapone. Ma tutto sta nel "poi".
Vi ammiro: io non riuscirei a prendere in considerazione di diventare genitore di un bambino più grande di 5-6 anni.
E vi abbraccio, per quel che vale.
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