lunedì 16 giugno 2008
Balloon Bazaar # 6: cattivismo fransé
(Odio i post chilometrici, ma visto che De-Code è in coma farmacologico mi vedo costretto a postare qui il pezzullo che avevo in canna da qualche settimana. Vive la France, e in culo a Domenech.)
Dice che non parlo mai di fumetti francesi.
Non è così vero. Anzi: sono convinto che sotto molti punti di vista dovremmo prendere esempio dai nostri cugini d’oltralpe. Perché nella nona arte ci credono molto più di noi. Perché non fanno discriminazioni di genere, di tratto o di gusto. Perché non hanno mai relegato le strip nell’ambito delle letture per ragazzini, zotici o nerd compulsivi. Perché sono bravi.
Insomma, i motivi per buttarsi sul fumetto francese di per sé ci sarebbero. Il problema, semmai, è un altro. Cioè, che il più delle volte i fumetti francesi sono troppo colti, troppo cerebrali, troppo autocompiaciuti per colpire al cuore il lettore. Tanto è vero che nella stragrande maggioranza dei casi furoreggiano solo a casa propria. Qualche eccezione alla regola c’è: basta pensare a classici come “Asterix”. O al ciclo dell’Incal. O ancora a Bilal, Wolinsky o Johann Sfar. Però, diciamoci la verità: a parte il piccolo gallo dall’elmo alato, siamo sempre nell’ambito del prodotto di nicchia. Roba da nostalgici della Milano da bere e relativo coté radical-chic. Edizioni illeggibili, coltissime, lussuose, da sistemare in bella vista sul tavolino del salotto per tirarsela con gli ospiti sorseggiando camparini o pastis.
Tutta fuffa pretenziosetta e morta lì, quindi? Solo fino a un certo punto. Certo, nessuno può negare il rischio orchite di creazioni come “i frustrati” della Bretécher o “Paulette” di Pichard. Ma grazie a Dio, nel gruppone fransé c’è un autore marsigliese che ha affrontato la Bande Desinnée con un piglio davvero rivoluzionario, sintetizzando nevrosi e pretese della concorrenza in un pugno di albi affollatissimi e urticanti. Il suo nome è Gerard Lauzier.
Oggi, ormai, il nostro si è imborghesito: va per gli ottant’anni, ha mollato il mondo della BeDé e si guadagtna la pagnotta scrivendo brutte commedie come “Mio padre, che eroe” o “Asterix e Obelix contro Cesare”. Ma intorno agli Anni 80, dopo una vita da pubblicitario giramondo fra la Francia e il Brasile, è riuscito a ritrarre il mondo contemporaneo con una ferocia e una sottigliezza davvero stupefacenti, consegnando ai posteri eroi negativi degni del nostro Zanardi, e appena appena più presentabili.
Come scrive la giornalista Lietta Tornabuoni nella prefazione dell’opera più volutamente crudele della serie, “La corsa del topo”, il mondo in cui agiscono i personaggi di Lauzier è fatto di “Bionde belle e dannate che pigliano e lasciano, che usano e si stufano e partono e lasciano la segreteria telefonica: sempre pronte a vendersi al più ricco, ma dandosi pochissimo. Risse insensate. Principi arabi con la barba nera. Champagne e Whisketti. Moda maschila italiana. Produttori cinematografici con châlet a Gstaad, con yacht a Saint-Tropez, con amante importata dal Brasile: e senza il becco d’un franchino. Professioni superflue, sceneggiatore, pubblicitario, attore, esistenze tese a inventarsi divertenti rimpianti superflui...”.
Tipi umani stagionati di quasi trent’anni, che però sopravvivono ancora oggi nelle cronache “Stra-Cafonal” di Dagospia, nelle imprese da rotocalco dei vari Mora, Briatore e Corona, nel voyeurismo disgregato e vitalistico del “reality world”.
“La corsa del topo” è quella di Jerome, responsabile marketing di una grande e ignota multinazionale, padre e marito esemplare, perfetto esempio di integrazione: in seguito a un incontro casuale con un compagno di scuola malandrino e sciupafemmine, vede incrinarsi il labirinto di finzioni, rinunce e compromessi su cui poggia la sua esistenza e sceglie di dare una svolta alla propria vita. Un’impresa impossibile, destinata a svaporare in un vortice di amicizie superficiali, sveltine tristi, risibili velleità autoriali, piccole e grandi delusioni. Fino alle ultime tavole, e a un finale che riporta il protagonista della storia al punto esatto da cui era partito.
Un fumetto facile da amare e difficilissimo da digerire, che trova le sue armi migliori in un linguaggio visivo nervoso e scattante, in un humour acido e senza compromessi e in una scrittura che sa di Schnitzler e Flaubert. La qualità si paga da circa 10 euri in su. Però, sul tavolino del salotto, Lauzier fa un figurone. Fate l’affare, e alla prossima.
La corsa del topo
Editore: Milano Libri Edizioni
formato: 22 X 29 cm
Cartonato con copertina a colori
64 pagine a colori
Prezzo: a partire da 9,99 euro
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10 commenti:
Mah, a me i Frustrati non dispiacevano. Li ho ereditati dal padre, però.
In libreria compro gli "Ammeregani" e mi prostro davanti al concupiscente mainstream.
Sia sempre in culo a Domenech...
Fab
Massimo rispetto per gli american boys, ma ribadisco: Lauzier per me è un autore da (ri)leggere con attenzione. Altrimenti non recuperavo, ti pare? ;-)
Giusto.
Fab
In culo a Domenech!!! :D :D :D :D
Fab
Sempre sia lodato.
;-)
Ma è un recupero tuo dallo scaffale o un recupero di qualche editore che ha deciso di ristampare Lauzier (quello sì che sarebbe un absolute: 500 pagine per tutto Lauzier. Basterebbero?)?
E soprattutto, com'è che in ogni post sul tuo blog o su quello di Recchioni, lo spazio "commenti" si apre sempre con la faccina di Fabrizio? ;)
- Cap. P.
Lauzier, che io sappia, non lo ha ancora recuperato nessuno. Un po' come Shelton. ;-)
Per Fab, che ti devo dì: si vede che la faccenda dei quattro lettori ha il suo bel perché.
Keep up the good work.
Oh yesss. Thank you!
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