Ah, i vecchi tempi |
Doverosa premessa: personalmente, sono fra i tre pirla che hanno apprezzato anche Superman Returns. Sì, va be', la Bosworth era inguardabile, il grande piano di Lex Luthor sapeva di stantio e la sottotrama del super-figlio portava davvero troppo lontano dal canone. Però il carneade Brandon Routh indossava la calzamaglia con una certa cafona dignità. E il tema di Superman di John Williams, nonostante gli anni (luce), restava un bel sentire. Per stringere i bulloni di un possibile secondo episodio sarebbe bastato tagliare un po' di rami secchi e irrobustire un po' l'azione con qualche villain come Brainiac o Doomsday. Invece, si sa com'è andata: incassi non male ma inferiori alle attese. Qualche critica malevola nei confronti del taglio sentimentale di Bryan Singer. Scarso potenziale "toyetic". E quell'annosa questioncella della paternità del personaggio, scippato a Siegel & Shuster per un piatto di lenticchie, e rivendicato dagli eredi con veemenza degna di ogni icona planetaria. Per non parlare del Dark Knight di Nolan, quella sì una killer application in grado di imporsi al cinema, nei videogame o sulle scatole di cereali, alla faccia di qualunque altro eroe, fosse pure il capostipite della specie.
Insomma, non c'è da sorprendersi se fra quel Superman e questo sia trascorso quasi un decennio.
E tanto per chiarirlo subito: al contrario di Returns, L'Uomo d'Acciaio è perfettamente in linea con lo spirito dei tempi, l'ennesima metafora di un'epoca perennemente in bilico fra disincanto e repressione. Un Superman disposto a rompere con il suo passato di boy scout suggellando due ore e venti di romanzo di formazione muscolare con un bello schiaffone a tutti gli hardcore fan. Chi ha ancora impressi nelle retine i tirabaci lucidi di brillantina di Curt Swan, le atmosfere consolatorie dei vecchi albi Cenisio e lo sguardo da bravo ragazzo di Chris Reeve lasci ogni speranza alla cassa del multiplex: questo Superman è quello desaturato del nuovo corso DC, non solo il Man of Steel di John Byrne, ma anche e soprattutto quello di saghe come Nuovo Krypton e Grounded.
Al sodo: funziona, il Superman grim and gritty del nuovo millennio?
Nonostante i 170 milioni di dollari di budget, sì e no. Per chi ha la tendenza a vedere sempre il bicchiere mezzo vuoto, più no che sì.
Nonostante i 170 milioni di dollari di budget, sì e no. Per chi ha la tendenza a vedere sempre il bicchiere mezzo vuoto, più no che sì.
Intendiamoci. Come macchina da spettacolo, il film fa il suo dovere. Un plot efficace, con i flashback a cucire insieme la mappazza necessaria ma irrimediabilmente dejà vu della origin story più raccontata dopo quella di Gesù Cristo. Una caratterizzazione dei personaggi esile ma accettabile, vista l'ampiezza del cast. Cgi a tonnellate, ma usata con razionalità, almeno fino allo showdown finale fra kryptoniani buoni e cattivi. E last but not least, un arco narrativo dignitoso - anche se poi, chissà perché, i guai di Metropolis sono sempre una questione immobiliare.
Da un punto di vista visuale, libero dall'obbligo della messa in scena pedissequa dei panel di Frank Miller o Dave Gibbons, Zack Snyder compensa la propria mancanza di personalità con un esercizio di taglia e cuci pop: scorci oleografici stile Terrence Malick, citazioni da Alex Raymond e Jack Kirby, un battesimo dell'aria molto Richard Donner, panoramiche epiche prese di pacca da Ridley Scott e Peter Jackson, orifizi biomeccanici già esplorati da Hans Rudi Giger, la tensione esasperata di Chris Nolan, il catastrofismo finto amatoriale di Matt Reeves... Molta tecnica, un certo humour (volontario?) nella giustapposizione di generi e suggestioni alte e basse e il mestiere affinato in un decennio di cinema ad alto budget. Ma anche quello che è il vero buco nero del film: il più totale disinteresse nei confronti del valore aggiunto del personaggio. La sua umanità.
Come tutti i precedenti superuomini di Snyder, questo Superman è un barbaro digitale fatto solo per menare le mani. Un character piatto, sbrigativo, troppo irrequieto e frenetico per offrire al pubblico respiro epico o autentici slanci emotivi, privo dei tormenti ingenui in cui il "vecchio" Superman tendeva a smarrirsi, e che il nuovo Superman liquida con la fine dell'infanzia per votarsi alla filosofia burina e molto attuale del chi mena per primo, mena du' vorte.
Probabilmente, visti i valori produttivi e il physique du role di Henry Cavill, Man of Steel farà palate di quattrini, rilancerà il franchise, aprirà a una nuova, luminosa (oscura) era di pellicole ispirate ai fumetti DC.
Ma se quando si riaccendono le luci in sala i ragazzini presenti hanno lo sguardo smarrito e se ne stanno abbarbicati alle braccia di mammà, forse un problema c'è: perché stringi stringi, Superman dovrebbe piacere a loro. Non agli scribacchini che a tarda sera sciamano fuori dall'Odeon con lo sguardo a mezz'asta di chi ormai le ha viste tutte, e ai propri sogni ha rinunciato da un pezzo.
Da un punto di vista visuale, libero dall'obbligo della messa in scena pedissequa dei panel di Frank Miller o Dave Gibbons, Zack Snyder compensa la propria mancanza di personalità con un esercizio di taglia e cuci pop: scorci oleografici stile Terrence Malick, citazioni da Alex Raymond e Jack Kirby, un battesimo dell'aria molto Richard Donner, panoramiche epiche prese di pacca da Ridley Scott e Peter Jackson, orifizi biomeccanici già esplorati da Hans Rudi Giger, la tensione esasperata di Chris Nolan, il catastrofismo finto amatoriale di Matt Reeves... Molta tecnica, un certo humour (volontario?) nella giustapposizione di generi e suggestioni alte e basse e il mestiere affinato in un decennio di cinema ad alto budget. Ma anche quello che è il vero buco nero del film: il più totale disinteresse nei confronti del valore aggiunto del personaggio. La sua umanità.
Come tutti i precedenti superuomini di Snyder, questo Superman è un barbaro digitale fatto solo per menare le mani. Un character piatto, sbrigativo, troppo irrequieto e frenetico per offrire al pubblico respiro epico o autentici slanci emotivi, privo dei tormenti ingenui in cui il "vecchio" Superman tendeva a smarrirsi, e che il nuovo Superman liquida con la fine dell'infanzia per votarsi alla filosofia burina e molto attuale del chi mena per primo, mena du' vorte.
Probabilmente, visti i valori produttivi e il physique du role di Henry Cavill, Man of Steel farà palate di quattrini, rilancerà il franchise, aprirà a una nuova, luminosa (oscura) era di pellicole ispirate ai fumetti DC.
Ma se quando si riaccendono le luci in sala i ragazzini presenti hanno lo sguardo smarrito e se ne stanno abbarbicati alle braccia di mammà, forse un problema c'è: perché stringi stringi, Superman dovrebbe piacere a loro. Non agli scribacchini che a tarda sera sciamano fuori dall'Odeon con lo sguardo a mezz'asta di chi ormai le ha viste tutte, e ai propri sogni ha rinunciato da un pezzo.
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