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Lo confesso: Finora, “Into the Wild” l’avevo accuratamente schivato. Troppo chiacchierato, il film di Sean Penn, soprattutto nel bene. Troppa gente a dire e uhh e ahh che storia che film della madonna. Così, un po’ per snobismo e un po’ per pigrizia, avevo deciso di rinunciarci. Ieri sera, però, il richiamo della foresta si è fatto irresistibile. E finalmente mi sono messo davanti alla Tv. Trentadue pollici per centocinquanta minuti di bei paesaggi varranno pure la candela, mi son detto.
Risultato: il film era bello sul serio.
Bello e disturbante. Con un paio di solidi punti di forza.
Primo: il fascino devastante delle ossessioni. Qui è come “Mosquito Coast” più “Una storia vera” più “L’attimo fuggente” più “Dersu Uzala - Il piccolo uomo delle grandi pianure” tutto frullato insieme. E moltiplicato dieci. Perché l’avventura del protagonista
è tragicamente vera. Christopher McCandless, sul suo sogno impossibile, ci si è giocato la buccia. E ha perso. Per fame e per sete.
Secondo: la sincerità. “Nelle terre selvagge” non parla di un eroe puro, senza macchia, senza difetti, senza incertezze. Parla di un uomo giovane, coraggioso, ma completamente chiuso su se stesso e sul suo sogno ego(t)ista di una vita lontana da ogni convenzione e da ogni costrizione. Anche da quelle che avrebbero potuto salvargli la vita: un po’ di apertura mentale, una bussola e una mappa aggiornata del Denali National Park avrebbero fatto la differenza.
Sarà pur vero che un viaggiatore autentico non ha niente a che vedere con un turista all inclusive. Ma è vero anche che quando si parte, si parte per tornare. Sempre che non si punti a un’impossibile fuga dall'esistenza.
E tornano a galla le battute conclusive dello splendido e raggelante racconto di Magnus “La grande Signora”, forse l’episodio più significativo di “Le femmine incantate”:
“Triste, triste l’uomo che aspettava la grande signora: per un solo sogno sciupò l’intera sua vita!”