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"Sono stato avvisato di non essere obbligato a dire alcunché, a meno che io non voglia farlo, e che ogni cosa che dirò sarà messa per iscritto e tenuta in evidenza.
Nel gennaio 1941 fui assegnato allo Stato maggiore del Tenente colonnello Kappler, in via Tasso, a Roma. Il mio lavoro consisteva nel far da collegamento tra i servizi di polizia tedeschi ed italiani. Nel pomeriggio del 23 marzo 1944 mi trovavo nel mio ufficio di via Tasso quando appresi che un certo numero di soldati tedeschi era stato ucciso in un attentato dinamitardo, in via Rasella, a Roma. Ritengo che il Tenente colonnello Kappler e il capitano Schutz, avendo appreso dell’incidente, avevano lasciato gli uffici per recarsi sul posto. Io rimasi temporaneamente al Comando, in via Tasso.
Quella sera il Tenente colonnello Kappler tornò presto in ufficio e chiamò tutti gli ufficiali e i soldati. Ci parlò dell’incidente dicendoci che ci sarebbe stata una rappresaglia contro gli italiani nel rapporto di un tedesco contro dieci italiani. Io ritengo che quest’ordine fosse stato dato dal Generale Kesserling. Ci fu detto di effettuare una ricerca in tutti i registri dell’Ufficio al fine di rintracciare tutte le persone condannate a morte dai tribunali tedeschi per reati contro le truppe tedesche, al fine di ucciderle. Tutta la notte cercammo tra i registri, ma non riuscimmo a trovare un numero sufficiente a raggiungere un numero richiesto per l’esecuzione.
Non essendo riusciti nell’intento, facemmo un’ulteriore ricerca nei registri per vedere se ci fossero persone non ancora processate, ma che erano state arrestate per essere o coinvolte in offese contro truppe tedesche, o trovate in possesso di armi da fuoco ed esplosivi, o alla testa di movimenti clandestini. I loro nomi vennero aggiunti all’elenco. Non riuscimmo, tuttavia, a trovare persone sufficienti, per cui, credo, che venne chiesto al Questore Caruso di fornire persone sufficienti a costituire il numero di trecentoventi.
Il giorno seguente, verso le ore 10,00, Kappler chiamò di nuovo tutti noi ufficiali, dicendoci che il Comandante del reggimento di Polizia, i cui soldati erano stati uccisi, si rifiutava di mettere in pratica l’esecuzione capitale, e che i soldati del Quartier generale in via Tasso dovevano essere gli esecutori. Ci disse che questa era cosa orribile da fare e che tutti gli ufficiali per mostrar ai soldati che avevano il sostegno degli ufficiali, avrebbero dovuto sparare un colpo all’inizio e un altro alla fine.
Verso mezzogiorno del 24 marzo 1944, circa ottanta, novanta soldati dei Reparti III e IV andarono alle Cave Ardeatine. All’arrivo vidi i prigionieri nella cava. Tutti avevano le mani legate dietro la schiena, e quando i loro nomi venivano chiamati si incamminavano all’interno della cava in gruppi di cinque. Erano presenti dieci o dodici ufficiali, tra i quali Kappler, i capitani Schutz, Clemens, Wetjen e Koehler, i Maggiori Domizlaff e Hass, i Tenenti Tunath e Kahrau, e altri del reparto III. Io entrai con il secondo o terzo plotone e uccisi un uomo con un mitra italiano. Verso la fine uccisi un uomo con lo stesso mitra.
Le esecuzioni terminarono la sera, quando stava calando l’oscurità. Nel corso della serata arrivarono alcuni genieri tedeschi e dopo l’esecuzione le cave furono fatte saltare. Non so se fu Kappler, Maeltzer o Kesserling a ordinare di far esplodere le cave. In quel periodo a Roma c’era uno stato d’emergenza, sebbene non fu pubblicata alcuna dichiarazione sull’effetto, poiché quasi ogni notte c’erano azioni contro le truppe tedesche".
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