mercoledì 20 dicembre 2017

Coco pro (precari forever)

Quando la Banda passò
Arlo, come unico primato, ha quello discutibile di primo vero fiasco dell'era PixarInside Out è stato un grosso Meh, tanto accurato come World Building quanto diseguale come trama e invenzioni. Su Alla ricerca di Dory e Cars 3, un bel tacer non fu mai scritto. Poi il caso Rachida Jones, e Lasseter che si autosospende per (presunti) comportamenti inappropriati, e ancora una campagna marketing schiacciata fra colossi come Justice League e Star Wars - Episodio VIII: questo Coco, dodicesimo lungometraggio Disney/Pixar al netto dei lucrosi sequel seminati in questi anni arriva al cinema dal 28 dicembre annunciato da un discreto filotto di complicanze. Né vale puntare il dito verso gli incassi record raccolti in Messico: il minimo, per un Paese di 250 milioni di abitanti, dove peraltro è ambientata la pellicola.

Ma come nel caso dei migliori film Pixar, l'ambientazione è puro orpello, il fastoso espediente visivo per raccontare altro: una storia universale che parla della precarietà dell'esistenza e del ricordo, della necessità di mantenere il legame con i retaggi ancestrali, dell'importanza del giocarsi in una relazione. Il tutto, a partire da un folclore sacro e profano distillato in un character design che torna al divertissement macabro di vecchi "corti" Disney come La danza degli scheletri o videogame come il leggendario Grim Fandango di LucasArts, e a tutta la paccottiglia per turisti disponibile sul mercato: le calacas del 2 novembre, gli AlebrijesEl Santo, l'immancabile Frida, il Son. Un nuovo viaggio all inclusive fra le emozioni, però più pulito e "di panza" di quello visto in Inside Out, e più abile a far vibrare le corde del cuore, con due o tre momenti da sciogliere il più incallito Hijo de puta, uno script che tiene alla perfezione per tutti i 106 minuti della pellicola e un comparto visivo e musicale tutto oh e ahhh.

Manca la sequenza killer, quella da consegnare agli annali del cinema per il suo carico da undici di inventiva, slapstick o vattelapesca, quella tipo la scena delle porte di Monsters & Co. o il piano sequenza sul portavivande di Ratatouille. Ma la regia di Lee Unkrich e del sodale e sceneggiatore Adrian Molina è un tripudio di recitazione che regala ai pupazzi digitali al centro della rivista un'umanità degna dei ritratti di Steve McCurry, e alle sequenze più complesse e articolate una levità di tocco degna di Chaplin: valga, su tutti, l'esecuzione de La Llorona durante il terzo atto del film.
E imbroccare il colore e la densità del Tequila reposado in un film animato, diciamolo, non è da tutti.
Chissà quanto se ne sono ciucciato per imbroccarlo, questi gringos.

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